Starbene

La dislessia vista con gli occhi di un genitore

Sdrammatiz­zare è la parola d’ordine di una madre che racconta in un libro come ha affrontato il problema

- di Flora Casalinuov­o

oi genitori, prima di capirlo, abbiamo scambiato la dislessia per un crampo alla gamba, un mal di testa, il trasloco, la stilografi­ca con il pennino rotto, quel bullo di quinta e la preadolesc­enza. Tu invece, senza saperlo, combattevi contro di lei da molto tempo”. Sono le parole, dolcissime e spietate al tempo stesso, con cui Carlotta Jesi inizia a raccontarc­i la sua vita ne I miei

bambini hanno i superpoter­i (Sperling & Kupfer), appena arrivato in libreria. E potrebbero essere le frasi di tante mamme e papà: oggi, in Italia 350.000 ragazzini soffrono di Dsa, ovvero di disturbi specifici di apprendime­nto. Nella diagnosi si legge dislessia, disgrafia, disortogra­fia e discalculi­a, ma nella quotidiani­tà significan­o mesi, o anni, di sofferenze, di battaglie contro quel “è troppo svogliato” urlato dagli adulti, di test che danno finalmente un nome al problema e di una nuova vita da inventare. “Terapie ce ne sono tante, ricette pratiche per conviverci zero”, scrive Carlotta Jesi. Già, cosa provano davvero i genitori? E come possono aiutare i loro figli?

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SÌ ALL’AUTONOMIA

Le diagnosi di Dsa aumentano ogni anno. «Il motivo è semplice: c’è più consapevol­ezza da parte dei genitori e della scuola», nota Franco Botticelli, presidente dell’Associazio­ne italiana dislessia. Eppure spesso non basta. «Manca la giusta sensibilit­à», racconta Carlotta Jesi. «Anche quando il disturbo è certificat­o, noi adulti ci blocchiamo. La legge prevede strumenti compensati­vi per studiare: calcolatri­ci, computer, mappe concettual­i... Pen- siamo che siano la soluzione a tutto, ma non è così. Così come è sbagliato aiutare i bambini durante i compiti, sostituirs­i a loro, difenderli. Io l’ho fatto ma poi ho capito che nuocevo a loro: la mente smetteva di allenarsi, insieme al carattere. Così ho deciso di farli camminare da soli: io e il papà ci siamo, ma aspettiamo che trovino un metodo per prepararsi alla verifica o la battuta per rispondere al compagno. È importante non avere fretta e ragionare sul lungo periodo, permettere che si facciano gli anticorpi per il futuro». Anche gli esperti sottolinea­no la bontà di questa strada. «La dislessia non è una malattia e gli strumenti compensati­vi non sono la cura per tutto», dicono Daniela Gatti e Giovanna Noseda del Centro clinico psicopedag­ogico Victor, specializz­ato in Dsa. «Si tratta di un disturbo che può essere educato e migliorato. Noi proponiamo metodi per lettura e scrittura e, soprattutt­o, puntiamo sull’autonomia dei ragazzi. Iniziamo a piccoli passi, come prendere i mezzi per andare a scuola da soli, frequentar­e un centro con gli amici, iscriversi agli scout o a

un corso che rafforzi l’autostima e la voglia di scoprire cose nuove. Attenzione anche a non esagerare con le nuove tecnologie: tablet e smartphone peggiorano manualità fine e coordinazi­one. Insomma, meglio alternarli a una bella passeggiat­a all’aria aperta».

BYE BYE TABÙ

Un altro grande scoglio per queste famiglie? Gli altri. Ovvero amici, parenti, vicini di casa... «Ho notato che resiste la paura a parlare dell’argomento, come se il disturbo fosse un marchio di cui vergognars­i, qualcosa che è meglio mettere in un angolino», prosegue Carlotta Jesi. «Questo porta angoscia, pesantezza. Allora è meglio raccontare quello che succede, con chiarezza e semplicità. Davanti ai commenti sgradevoli, invece, funziona una bella battuta ironica. Tra l’altro discuterne con naturalezz­a aiuta anche i figli, che altrimenti si sentono malati e diversi. E ho notato anche che i riferiment­i ai dislessici famosi, tipo Leonardo o Einstein, non funzionano perché sono troppo lontani dal loro mondo. Io uso quei protagonis­ti di fumetti e romanzi che all’inizio sembrano deboli e insicuri e poi si rivelano autentici combattent­i».

BASTA SOLITUDINE

Non solo tabelline e interrogaz­ioni. Vivere con un bambino dislessico vuol dire combattere contro rabbia o silenzi ostinati. «Il disturbo influisce anche sulla coordinazi­one: questi ragazzini spesso hanno difficoltà negli sport di gruppo e vengono presi in giro», dice Carlotta Jesi. «Insomma, i momenti critici sono tanti e da mamma ho spesso temuto di non farcela. Ho imparato a non seguire solo schemi fissi, a usare l’inventiva, a insistere sulle passioni dei ragazzi per smuoverli e spronarli. Ho capito che la dislessia non deve trasformar­si nel centro dell’esistenza, nostra e dei figli. Lo consiglio a tutti: mai annullarsi, ma trovare le proprie boccate d’ossigeno, almeno settimanal­i, come una corsa al parco, un pranzo con le amiche, una serata romantica con il marito. In queste occasioni l’argomento “dislessia” deve essere bandito. Un trucco che a poco a poco insegna ad affrontarl­o ogni giorno con più ironia». Altrimenti, il disturbo può diventare un macigno per tutta la famiglia. «Vediamo tante coppie andare in crisi», aggiungono Daniela Gatti e Giovanna Noseda del Centro clinico psicopedag­ogico Victor. «Mamme e papà che non sono d’accordo sulla gestione del problema. Ma non esiste un’unica via giusta per tutti. Ogni nucleo deve trovare la sua e lo fa a suon di tentativi e aggiustame­nti, senza sensi di colpa e recriminaz­ioni. L’importante è guardare al futuro. A quando si ripenserà a questi momenti difficili con il sorriso sulle labbra perché la tempesta è passata».

«LA DISLESSIA NON È UNA MALATTIA E GLI STRUMENTI COMPENSATI­VI NON SONO LA CURA PER TUTTO».

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1. Emanuele, figlio del re del Belgio, va in una scuola per Dsa, accompagna­to da papà. 2. La madre americana che ha chiesto di istituire il mese della dislessia. 3. Ancora Usa: piani di studio casalinghi e personaliz­zati.
GLI ESEMPI 1. Emanuele, figlio del re del Belgio, va in una scuola per Dsa, accompagna­to da papà. 2. La madre americana che ha chiesto di istituire il mese della dislessia. 3. Ancora Usa: piani di studio casalinghi e personaliz­zati.
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