Perché tutti parlano dei fanghi in agricoltura
Derivano dai rifiuti liquidi e vengono usati come concime. Ma c’è chi ne denuncia gli effetti negativi sull’ambiente e sulla salute dell’uomo. Abbiamo cercato di capirne di più
Sono un tassello essenziale dell’economia circolare o un rischio per la salute? Dalla Toscana alla pianura Padana è scontro aperto sull’uso dei fanghi in agricoltura. Si tratta del prodotto che deriva dalla depurazione degli scarichi civili, industriali o degli scarti delle aziende agroalimentari. Tonnellate di materia fangosa che, una volta essiccata e trattata, costituisce un prezioso serbatoio di minerali da utilizzare sui campi come concime naturale. Un ottimo modo di recuperare rifiuti liquidi che, altrimenti, finirebbero in discarica. Eppure non tutto fila liscio. Molte associazioni sono sul piede di guerra e hanno messo nel mirino gli odori molesti e soprattutto i rischi per la salute dovuti alla presenza nei fanghi di metalli e idrocarburi che possono trasferirsi alle colture e alle falde acquifere. Gli ultimi episodi in Lombardia, tra Lodi e il pavese, dove 65 Comuni, con in testa San Martino Siccomario, hanno proposto un ricorso al Tar chiedendo lo stop di queste attività. Vediamo di capirci di più.
LI USANO IN TUTTA EUROPA PER “IRROBUSTIRE” IL SUOLO INDEBOLITO
Questi procedimenti sono utilizzati in tutto il mondo. In Europa, dalle sole acque reflue civili, si producono 10 milioni di tonnellate di sostanza secca (1,2 milioni in Italia). Da noi circa un terzo di questi finisce sui campi, il resto viene bruciato per produrre energia o va in discarica, ma in Paesi come Irlanda o Gran Bretagna si arriva al 70 % di uso in agricoltura. «Con i cambiamenti climatici che fanno aumentare la temperatura e l’uso sempre più estensivo del suolo, circa il 40% dei campi in Europa è sotto stress, quasi a rischio esaurimento, e va irrobustito», dice Marco Trevisan, preside della Facoltà di scienze agrarie all’Università Cattolica di Piacenza. Secondo uno studio di A2a ambiente, il 50% di questi fanghi è costituito da materia organica (in buona parte carbonio) e per il 25% da elementi nutrienti quali azoto (ha un ruolo cruciale nel metabolismo delle piante), fosforo (trasporta l’energia nella pianta), potassio (rafforza la resistenza della coltivazione a malattie, siccità e gelo), più altri minerali come rame, magnesio e zinco. Dunque, è un toccasana per il terreno. Eppure c’è una percentuale minima, ma pericolosa (intorno allo 0,01%) rappresentata da metalli, idrocarburi e diossine, potenzialmente dannosi per l’uomo e per l’ambiente.
I LIMITI SULLE SOSTANZE PERICOLOSE SONO DATATI La legge impone dei limiti alla presenza di queste sostanze (vedi box a sinistra). Ma secondo
alcuni si tratta di soglie superate, al punto che alcune Regioni (come Lombardia ed Emilia Romagna) hanno corretto le norme in senso più rigido. «Sono paletti basati su nozioni scientifiche vecchie. Inoltre, il sistema di produzione, tracciabilità e controllo di questi fanghi non è affidabile, come innumerevoli inchieste hanno messo in evidenza», spiega Sergio Toncelli, che fa parte del coordinamento “Liberi dai fanghi”, sorto in Toscana, nella zona della Valdera (Pisa) per protestare contro presunte irregolarità nello spargimento dei fanghi. E dove in effetti la Dda di Firenze (Direzione distrettuale anti mafia) ha aperto un’inchiesta sulla vicenda. Secondo un documento dell’Isde, l’associazione dei medici a difesa dell’ambiente, l’uso dei fanghi sarebbe pericoloso tout court, perché di alcuni elementi neppure la scienza riesce a prescrivere una quantità minima accettabile. «Tra questi cadmio e nichel, che lo Iarc (l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) pone fra i cancerogeni umani “certi”, quelli del gruppo 1, che colpiscono soprattutto ossa e reni e possono indurre anche osteoporosi e osteomalacia», si legge nel documento. «Anche l’esposizione al piombo è particolarmente pericolosa per lattanti, bambini e donne in età fertile e provoca effetti neurologici, cardiovascolari, renali ed ematologici». Quindi?
SERVONO PIÙ CONTROLLI E NUOVI BREVETTI
«Il settore è troppo spesso demonizzato, ma i fanghi sono una risorsa. Anche perché, in agricoltura, se si eliminano i fanghi, al loro posto vengono comunque usati i fertilizzanti chimici», sostiene Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia. «Inoltre non ha senso condannare genericamente la presenza di metalli perché questi si trovano dappertutto in natura. È la quantità che fa il veleno. Oggi i rischi maggiori arrivano dagli inquinanti emergenti, come i metaboliti farmacologici, cioè i residui delle medicine, che diffondono la farmaco-resistenza nell’ambiente; e dai famigerati fluorurati, che hanno già inquinato molte falde in Veneto». Nell’industria esistono alcuni casi virtuosi. Qualche impresa, ad esempio Agrosistemi, usa solo materie prime con concentrazioni di metalli inferiori del 50% rispetto al dettato di legge. Il gruppo Visconti ha messo a punto un software sofisticato che sfrutta mappe digitali e permette lo spandimento mirato dei fanghi secondo le esigenze delle singole porzioni di terreno. «Questo è essenziale perché i fanghi vanno usati solo dove serve e nella giusta quantità», dice ancora Marco Trevisan dell’università Cattolica. E ci sono aziende come la Syngen di Piacenza che dispongono di brevetti capaci di separare adeguatamente i fanghi dai metalli e abbattere la presenza di batteri patogeni. Uno di questi si chiama Mwo (Mild Wet Oxidation). «Eppure l’arma principale deve essere quella dei controlli, in mano alle amministrazioni pubbliche», conclude Di Simine. «Non solo sui produttori di fanghi, ma spesso anche su agricoltori corrotti che per interesse autorizzano le imprese a distribuire molti più fanghi del necessario, anche se poi quei campi muoiono e non vengono neanche coltivati. In presenza di una filiera controllata, non ci sono valide ragioni per non usare questa tecnica».