La pasta, cibo che livella nobili e popolani
Maccheroni e vermicelli, usati dalla gente comune nel Sud, erano invece appannaggio dell’aristocrazia nel resto del Paese
Origini e vicissitudini di uno degli emblemi della cucina italiana, che abbatté le differenze di classe
La pasta, come prodotto a base di farina di qualche cereale e acqua, è consumata da millenni in tutto il mondo o quasi, vista la semplicità della preparazione e l’abbondanza dei due ingredienti. I greci usavano una pasta (da passein, impastare) a base di farina e salsa, mentre i romani, come testimonia Orazio nelle Satire, mangiavano le laganae, larghe strisce di pasta fresca formata da acqua e farina e cotte al forno, dalle quali si sono poi sviluppate le nostre lasagne: «quindi me ne torno a casa, alla mia scodella di porri, lagane e ceci».
La pasta vera e propria, invece, è prodotta con il grano duro, un cereale che ha caratteristiche diverse da quelle del grano tenero, che si utilizza per il pane comune. Il grano duro macinato fornisce una semola che si impasta e si modella in diverse forme. La lavorazione si conclude con una fase di essiccazione che permette la conser- vazione della pasta per molto tempo. La cultura della pasta di grano duro si sviluppò nel mondo islamico medievale, anche se potrebbe anche essere arrivata dalla Persia. La testimonianza più significativa della diffusione della pasta nel Medioevo è offerta dal geografo arabo Muhammad al-Idrisi, il quale visse per 18 anni alla corte di Ruggero di Sicilia e narra che a metà del XII secolo, in una zona della Sicilia, esistevano mulini che producevano pasta in grandi quantità. È probabile che il grano arrivasse dal nord dell’Africa e che dalla Sicilia, dominata dagli arabi fino al 1072, raggiungesse l’Europa continentale.
Non arrivò dalla Cina
Quando Marco Polo tornò dalla Cina nel 1269, quindi, la pasta era una realtà in Italia da secoli: oltre ai “vermicelli” (il termine“spaghetti”è settecentesco) erano nati anche i“macarruni”(termine di etimologia incerta che potrebbe derivare dal tardo latino macare, cioè schiacciare, comprimere un impasto) che indicavano genericamente la pasta corta. In un’opera del più noto poeta tedesco altomedievale, Walther von del Vogelweide (1165 circa -1230 circa), amico di Federico II di Svevia, si afferma che i siciliani erano soliti mangiare i «maccheroni dal sugo dolce». In ogni caso, a partire dal XIII secolo i riferimenti a piatti di pasta sono sempre più frequenti in Italia.
Della popolarità della pasta parla Giovanni Boccaccio, che nel Decamerone ambienta una storia su una montagna fatta di parmigiano, sulla cui cima alcuni cuochi si dedicano alla preparazione di
maccheroni e ravioli cuocendoli nel brodo di cappone e poi gettandoli verso il basso, affinché i golosi se ne sazino. Nel XIV secolo lo scrittore Franco Sacchetti racconta di come due amici si fossero incontrati per mangiare dei maccheroni. Erano stati serviti in un piatto comune, come era consuetudine all’epoca, ma uno aveva mostrato di avere più appetito dell’altro. «Noddo comincia a raguazzare i maccheroni, avviluppa, e caccia giù; e n’avea già mandati sei bocconi giù, che Giovanni avea ancora il primo boccone su la forchetta, e non ardiva, veggendolo molto fumicare, appressarlosi alla bocca».