LA CONQUISTA DELL’OVEST
L’espansione della frontiera verso l’Oceano Pacifico creò un mito che è presente ancora oggi nel temperamento degli Stati Uniti
Nel 1835, Alexis de Tocqueville, un giovane scrittore francese di origine nobile e provinciale, pubblicò il primo volume di La democrazia in America. In questo libro raccontava, in bilico tra sbalordimento e preoccupazione, le impressioni e le riflessioni che era riuscito a mettere insieme durante un viaggio di nove mesi negli Stati Uniti. Tocqueville scoprì che la democrazia e la massiccia emigrazione europea stavano provocando in America un mutamento della civilizzazione: «Ci troviamo qui in un altro mondo», sottolineò in un’epistola. Era rimasto affascinato da quello che lui chiamava «l’organismo sociale», ovvero l’azione combinata di migliaia di indi- vidui, di qualunque origine, che erano arrivati in America alla ricerca del trionfo, ovvero per uscire dalla miseria. Insieme al suo amico e compagno di viaggio Gustave de Beaumont, lo scrittore si dedicò a osservare quella realtà, a loro ignota: dalle feste dell’alta società newyorkese ai freddi porti dove venivano scaricati quotidianamente migliaia di emigranti.
La curiosità che provavano era tale che i due amici decisero di addentrarsi nel paese appena nato, e ciò che vi scoprirono fu «una condizione generale di uguaglianza tra la gente». Diversamente da quanto avveniva in Europa, il temperamento e le passioni degli individui riuscivano a proiettarsi verso il futuro senza rivoluzioni sanguinarie né lotte sociali. La ra-
gione di tutto ciò altra non era che la disponibilità di immensi spazi inconquistati. Nel 1803, la repubblica appena nata aveva sottratto alla Francia il territorio della Louisiana, che allora era una vasta estensione che copriva la zona che va dal Mississippi alle Montagne Rocciose. In tal modo, la nuova nazione si trovava tra le mani un terreno sconosciuto e in via d’esplorazione che comprendeva i 13 stati originari e i suoi possedimenti, stando al trattato di indipendenza stipulato con la Gran Bretagna nel 1783. Nel 1819, gli Stati Uniti comprarono dalla Spagna anche la Florida, e tra il 1846 e il 1848 intrapresero una guerra di annessione in seguito alla quale incorporarono anche gli sconfinati territori del Texas, della California e del Messico settentrionale.
Esploratori e pionieri
Generalmente si tende a stabilire la svolta fondamentale per la conquista del West da parte degli Stati Uniti nell a spedizione di Meriwether Lewis e William Clark, che tra il
1804 e il 1806 percorsero l’area del Mississippi e del Missouri su ordine del presidente Jefferson. Un totale di 27 militari e due civili (la guida Drouillard e lo schiavo di Clark, di nome York) partirono dall’Indiana dopo un rigido inverno. Provvisti di canoe, fucili, apparecchiatura scientifica, regali per gli indigeni (specchi, forbici, coltelli e tabacco), marciarono alla volta dell’obiettivo assegnatogli da Jefferson: individuare «la rotta commerciale più diretta e fattibile che attraversi il continente». La cosa più importante, come in qualunque spedizione, fu che arrivarono fino al Pacifico e rientrarono per raccontarlo. Quell’impresa di “diplomazia di frontiera” – che alcuni storici del XX secolo sono arrivati a paragonare allo sbarco dell’uomo sulla Luna– servì da inventario di risorse, popolazioni e itinerari di accesso ai nuovi territori. Grazie a questa prima spedizione, si ufficializzarono le prime mappe delle straordinarie terre situate a Occidente. Nonostante ciò, risulta complesso determinare se la conquista del West sia da considerare il risultato di un piano politico delle autorità nazionali o, al contrario, un naturale adattamento alla vitalità di quella
repubblica da poco emancipata. La gran parte di questa esplorazione fu portata a termine da individui come Jedediah Smith, che si addentravano nelle terre ignote da soli e senza aiuto da parte del governo. Smith fu contrattato a 23 anni dalla Compagnia di pellicce del Missouri. Provvisto di una Bibbia e di un fucile, riuscì ad oltrepassare il Nevada, attraversare lo Utah, entrare in California via terra e diventare il primo uomo bianco a scalare la Sierra Nevada, prima di morire, nel 1831, aggredito dai guerrieri Comanche. Aveva 32 anni. La Compagnia di pellicce del Missouri assicurava di poter contare su «cento uomini –come Jedediah Smith– che scalano le Montagne Rocciose», individui votati all’attività lucrativa delle pellicce nelle terre del nord-ovest. I ce-
lebri romanzi scritti da James Fenimore Cooper ( L’ultimo dei mohicani, La prateria) o da Karl May ( Winnetou) decantavano il coraggio degli avventurieri solitari che abbandonavano la civiltà per addentrarsi nei territori di frontiera. Avventurieri che, una volta sopraggiunti su suolo ignoto, diventavano automaticamente dei pionieri. Per sopravvivere negli sconfinati spazi interni del continente americano era fondamentale avere un cuore onesto, forza fisica e mentale e destrezza con la meccanica. Questa sete di conquista venne messa in rilievo nel 1845 dal giornalista John L. O’Sullivan, che enunciò la teoria che forgiò il medesimo espansionismo statunitense: il “destino manifesto”. Secondo questa dottrina, Dio aveva conferito alla nuova nazione americana il diritto di estendersi per tutto il continente al fine di diffondere dappertutto la libertà, una convinzione che motivò milioni di coloni a dirigersi alla volta dell’Occidente.
L’epoca delle carrozze
Per comprendere la conquista del West non è possibile prescindere dall’espansione dei nuovi sistemi di trasporto, come le barche e i
traghetti messi in movimento dall’energia a vapore. Il vero limite allo sviluppo della nazione si trovava in quelle zone nelle quali non arrivava la rete ferroviaria. A partire da questo punto, le protagoniste assolute diventavano le carrozze, con cui si arrivava al Pacifico, la meta tanto agognata. La scoperta dell’oro in California nel 1848 stimolò considerevolmente gli sforzi di tutti quei pionieri. Dopo aver oltrepassato il Mississippi, dapprima in direzione dell’Oregon e in seguito della California, le carovane che conducevano contadini e allevatori, con o senza famiglia, arrivavano a destinazione. I colonizzatori mennoniti tedeschi resero famosa la carrozza conestoga, costruita con ampie ruote di legno e rinforzi di ferro, con barre curve sulle quali poggiava una tela impermeabilizzata con olio di semi di lino. Procedendo a tre o quattro chi
lometri orari, ci
metteva cinque mesi per andare dal Missouri alla California. Durante la notte, queste vetture si schieravano a cerchio per proteggersi. Gli anziani e i bambini erano i più esposti alle privazioni e alle malattie del viaggio, specialmente a colera e dissenteria. Questo grande progresso dovette scontrarsi anche con le confederazioni degli indigeni nomadi. Le relazioni tra coloni e nativi passarono da un iniziale cameratismo bonario al tentativo di conversione religiosa a opera degli svariati predicatori che viaggiavano nelle carovane, sfociando, infine, nella violenza saccheggiatrice tipica di qualsiasi guerra di frontiera. Fino al decennio del 1850 furono sporadiche le offensive degli indigeni, i quali, più che altro, si avvicinavano per barattare pelli o liquori e per curiosare. Tuttavia, negli anni successivi si intensificò il clima di violenza (che preannunciava l’avvento di una guerra civile) e incrementò il pericolo dei viaggi.
Guerra e violenza
Nel 1859, due anni prima dell’inizio della guerra di Secessione, il risoluto editore ed espansionista Thomas B. Stevenson redasse
un articolo nel quale affermava che esistevano questioni molto più importanti rispetto alla schiavitù –il principale fattore che scatenò la guerra– da considerare per il futuro dell’Unione. Dal suo punto di vista, la demagogia impediva di rendersi conto che il bene pubblico risiedeva in ciò che realmente importava, ovvero l’occupazione del West. Alla fine della guerra civile, nel 1865, la conquista dell’Ovest giunse al suo apogeo. L’incontrollato cameratismo maschile, il banditismo e l’assenza di leggi si tramutarono in un invito per soldati e veterani congedati a impossessarsi di tutte le terre apparentemente prive di un proprietario. Stando a quanto scrisse Mark Twain, che si era rifugiato nel Montana dopo aver disertato dall’esercito in piena guerra, qualunque nuovo arrivato nel West non sarebbe stato rispettato se prima non avesse «ucciso qualcuno». Lo stesso Twain si vide obbligato a scappare
a San Francisco a causa dello sdegno suscitato dai suoi articoli satirici pubblicati dalla stampa di Virginia City.
Dopo la guerra, la ricostruzione della nazione impose l’attivazione, in tutta l’Unione, di meccanismi di centralizzazione del potere e nazionalizzazione obbligatoria fino a quel momento sconosciuti. Il telegrafo, il filo spinato, gli sheriffs e le ferrovie cominciarono a occupare il paesaggio insieme ai migliaia di coloni che, incoraggiati dal governo federale, si insediarono nella zona delle Grandi Pianure.
Espressi da costa a costa
La ferrovia fu uno dei principali motori della massiccia emigrazione verso Occidente avvenuta dopo la guerra. Tra il 1830 e il 1850 erano stati costruiti 5.000 chilometri di binari nell’Est, e personaggi come il commerciante di tè Asa Whitney o l’audace ingegnere Theodore D. Judah dimostrarono che era possibile arrivare fino al Pacifico. Nel 1861, Judah fondò la compagnia Central Pacific (rotta da Sacramento al Nevada) insieme ad altri tre imprenditori dediti ai settori della ferramenta, dell’alimentare e dei tessuti. Poco dopo, il ge-
nerale e congressista Greenville Dodge lanciò un progetto alternativo, chiamato Union Pacific, nel cammino dal Nebraska al Nevada. Il governo gli consegnò denaro e 16 chilometri di terreni a entrambi i lati del binario affinché costruissero dove c’erano montagne, pianure e deserti. Le due compagnie gareggiarono per cercare di completare l’incarico prima dell’altra. Cinesi, irlandesi, veterani di guerra e antichi schiavi formavano squadre che aprivano tunnel per svuotare le montagne. Nel 1868, Union Pacific costruì 648 chilometri di binari; Central, invece, 580. Dopo una spietata concorrenza, l’anno successivo i responsabili di entrambe le compagnie decisero di fare la pace e misero i chiodi dell’ultima rotaia permettendo che 150.000 viaggiatori sfruttassero la nuova rotta transcontinentale. Da Omaha fino a Sacramento (in California) ci volevano dieci giorni anche se c’era chi preferiva viaggiare per mare, dai porti della lontana costa dell’Est. Verso la fine del XIX secolo, cinque grandi linee trasversali valicavano le antiche praterie.
Da repubblica a impero
La concezione degli Stati Uniti come terra di accoglienza, più aperta allo sviluppo dei meriti individuali che all’estrazione sociale e abitata
da individui intrepidi e irrequieti venne forgiata nel 1893 dallo storico Frederick J. Turner ne Il significato della frontiera nella storia americana. Secondo Turner, gli statunitensi avrebbero plasmato il proprio carattere democratico proprio durante l’esperienza del West. Per usare le sue parole, «la frontiera è la linea dell’americanizzazione più rapida ed effettiva; la crescita del nazionalismo e l’evoluzione delle istituzioni politiche dipendono dal suo progresso».
Nel 1891, l’ufficio nazionale del censimento aveva dato per conclusa la frontiera e pertanto la linea da cui sarebbe dovuta dipendere l’evoluzione della nazione smise di esistere. La frontiera successiva, quella dei Caraibi e del Pacifico, fece la sua comparsa nel 1898, dopo una guerra breve e facile contro il crepuscolare potere imperiale spagnolo. La conquista del West era stata un primo passo del cammino dell’allora giovane repubblica per trasformarsi in un impero influente e rispettato in tutto il mondo. Tuttavia, le conseguenze che un simile passo avrebbe comportato nel secolo successivo erano ancora ignote.