SAPIENS LA GRANDE MIGRAZIONE
Oltre 70mila anni fa l’Homo sapiens partì dalla terra dov’era nato, l’Africa, per colonizzare il resto del mondo. Quando è nata la nostra specie e come si è diffusa a partire da quel primo habitat?
Alla fine del XIX secolo alcuni naturalisti, tra cui Charles Darwin, ritenevano che l’origine del genere umano dovesse essere cercata in Africa. In un’epoca in cui gli studi preistorici erano appena agli inizi e tutti i resti fossili di umani moderni conosciuti provenivano dall’Europa, quest’ipotesi era priva di basi solide.
Oggi, invece, non esistono dubbi sul fatto che la nostra specie, Homosapiens, si sviluppò nel continente africano e da lì intraprese un’incredibile migrazione, che le permise di colonizzare gli angoli più remoti del pianeta. Quando e dove comparvero i suoi primi rappresentanti? Com’erano? In che momento e perché iniziarono questa impresa titanica?
La nostra origine
Dalla metà del XX secolo, prima dell’entrata in scena dei genetisti, gli studiosi iniziarono a sostenere due teorie per spiegare l’origine della nostra specie. Il punto di partenza di entrambe erano i resti fossili e gli utensili di pietra che erano stati rinvenuti in varie parti del mondo. Secondo la prima teoria, detta “ipotesi multiregionale”, le popolazioni umane oggi estinte (come l’Homo erectus asiatico), che si erano espanse per il globo dopo le prime migrazioni verso il “vecchio mondo”, sarebbero confluite nell’Homo sapiens. Ciò sarebbe stato il risultato dei contatti sessuali avvenuti tra le varie specie umane, che avrebbero conservato l’unità biologica e favorito la convergenza verso gli umani moderni (ovvero noi).
L’alternativa a questo modello è l’“ipotesi monogenetica”, popolarmente nota come“Eva africana”. Secondo questa teoria, tutte le attuali popolazioni umane discenderebbero da una popolazione originaria proveniente dall’Africa che si espanse per tutto il pianeta sostituendosi alle altre specie umane con le quali entrava di volta in volta in contatto.
Quest’ultima ipotesi fu confermata grazie alle prime ricerche genetiche sul DNA – ovvero sull’acido deossiribonucleico, la molecola portatrice dell’informazione genetica degli esseri viventi. Nel 1987 uno studio concluse che tutto il DNA mitocondriale umano attuale (quello
che si trasmette per via materna) proviene da una sequenza ancestrale africana: circa 200mila anni fa visse in Africa una donna – l’unica di una popolazione teoricamente molto ridotta di umani moderni – i cui dati genetici sono stati trasmessi in una catena continua da madri a figlie e figli fino a oggi.
Una storia di due milioni di anni
Il lungo cammino dell’evoluzione umana è segnato da alcune pietre miliari : circa 1,8 milioni di anni fa apparve in Africa l’Homo ergaster, una specie dotata di un corpo di proporzioni moderne che aveva sviluppato comportamenti più complessi di quelli dei suoi predecessori. Tra gli altri l’innovativa tecnica della scheggiatura acheuleana, l’aumento delle attività di caccia, l’espansione in territori più aperti e lo sviluppo delle relazioni sociali.
Tra i 700mila e i 500mila anni fa l’Homo ergaster diede origine a una specie distinta, l’Homo rhodesiensis, che aveva un cervello molto più grande. Questa specie presentava notevoli somiglianze con l’Homo heidelbergensis, diffuso in Europa da circa 600mila anni e di cui sono stati ritrovati molti resti nel sito della Sima de los Huesos de Atapuerca (Burgos, Spagna).
È probabile che i rhodesiensis africani e gli heidelbergensis europei facessero parte della stessa popolazione originaria africana che emigrò con successo in Eurasia. Il gruppo insediatosi in territorio europeo, dopo essersi adattato alle peculiarità dell’era glaciale, sarebbe sfociato nei neandertaliani. Il gruppo rimasto in Africa sarebbe invece l’antenato più probabile dell’Ho-
mo sapiens. Ciò che avvenne in terra africana dopo questa separazione è pieno di incognite. Gruppi che potrebbero essere più moderni dell’Homo rhodesiensis sono contemporanei e addirittura precedenti rispetto ad altri che presentano tratti più arcaici.
Nel contesto di questa diversità, circa 195mila anni fa comparve l’Homo sapiens. I fossili trovati a Omo Kibish, nel sud dell’Etiopia, appartengono ai suoi primi rappresentanti. Qui furono scoperti i resti del cranio e dello scheletro di un individuo che gli archeologi chiamarono Omo I e ascrissero ai sapiens. Infatti questo esemplare presenta già le caratteristiche craniche distintive della nostra specie (tralasciando le dimensioni del cervello): una scatola cranica particolarmente alta (che permette l’esistenza di una fronte ampia e verticale), la cresta ossea molto attenuata attorno alle orbite oculari e, infine, la presenza di un mento.
Ma il cammino verso la“modernità”dell’uomo in Africa non fu uniforme. La recente analisi dei resti umani esumati nel sito di Iwo Eleru, in Nigeria, di solo 13mila anni fa, rivela dei tratti somatici sorprendentemente arcaici. Ciò indica che la nostra specie si sviluppò in una cornice evolutiva più complessa di quanto si credesse, probabilmente perché a lungo sono coesistite popolazioni molto differenziate o isolate dal punto di vista geografico e demografico.
L’archeologia individua alcuni cambiamenti che corrispondono al processo di gestazione dell’Homo sapiens. Per oltre un milione e mezzo di anni non ci furono trasformazioni rilevanti nella culturale materiale degli umani in Africa.
L’innovazione tecnologica iniziata dall’Homo ergaster 1,7 milioni di anni fa, denominata acheuleana, era caratterizzata dalla produzione di grandi accette bifacciali, asce, picconi e coltelli che consentivano di svolgere molti compiti legati alla sopravvivenza. Invenzioni, queste, di grande successo e capaci di attraversare il tempo, i continenti e le specie: sono acheuleani,
I primi rappresentanti conosciuti della specie
Homo sapiens sono apparsi nell’attuale Etiopia e risalgono a 195mila anni fa
per esempio, gli utensili usati dagli heidelbergensis ritrovati ad Atapuerca (Spagna). Tuttavia, circa 250mila anni fa prese avvio in Africa orientale un periodo di innovazione tecnologica conosciuto come Paleolitico medio (MSA, dall’inglese Middle Stone Age). Le grandi accette furono sostituite da attrezzi in pietra di piccole dimensioni, soprattutto da punte che venivano unite a pali di legno, a mo’ di lance. Ciò indica che le tattiche di caccia iniziavano a basarsi su armi da lancio che permettevano di abbattere la preda da una maggiore distanza.
Il Paleolitico medio africano sorse quasi in contemporanea alla tecnologia dei neandertaliani europei, il musteriano, con cui presenta notevoli similitudini.
Intrappolati in Africa
Le comunità africane di Homo sapiens, scarse e isolate, rimasero legate alla tradizione culturale del Paleolitico medio per oltre centomila anni. Durante questo lungo e oscuro periodo non ci fu che qualche timido tentativo di uscire dall’Africa, in direzione del Vicino Oriente e probabilmente dell’Arabia. Ma questi sforzi non ebbero conseguenze sulla successiva colonizzazione del pianeta.
Circa centomila anni fa, infatti, in un momento in cui il clima era più umido dell’attuale, gruppi di sapiens emigrarono verso la costa dell’odierno Israele attraverso la penisola del Sinai. Nelle grotte di Skhul, sul Monte Carmelo, e di Qafzeh, sulle montagne della Galilea, sono stati ritrovati resti di almeno undici individui sapiens che, in alcuni casi, erano stati oggetto di una sepoltura rituale.
Ma le tracce degli abitanti di Skhul e Qafzeh si persero circa 75mila anni fa. Forse si estinsero a causa dei rigori climatici che caratterizzarono gli inizi dell’ultima glaciazione.
Dopo la loro scomparsa furono i neandertaliani, provenienti dall’Europa, ad addentrarsi in questo stesso territorio e a stabilirsi in grotte
All’incirca 100mila anni fa i sapiens uscirono per la prima volta dall’Africa, ma non riuscirono ad andare oltre l’attuale Israele
vicine. Molti specialisti concordano sul fatto che la presenza di sapiens e neandertaliani in questa piccola area fu una coincidenza e che le due specie non arrivarono a incontrarsi.
La grande esplosione
Se c’è una cosa che caratterizza l’Homo sapiens, oltre ad alcuni tratti fisici esclusivi, è il cosiddetto “comportamento umano moderno”: le innovazioni cognitive e culturali giunte fino ai nostri giorni e che costituiscono un’altra pietra miliare nella storia dell’evoluzione umana. L’archeologia identifica questo comportamento nello sviluppo di una tecnologia più potente, diversificata ed efficace per l’adattamento a ecosistemi molto diversi; nella capacità di usufruire di molte più risorse alimentari (come quelle dei fiumi e dei mari); nel rafforzamento di reti di scambio di beni e idee tra popolazioni lontane tra loro e, soprattutto, nel comportamento simbolico.
La nostra specie è capace di dare un contenuto simbolico a ogni aspetto della vita quotidiana attraverso il linguaggio, l’arte e l’ornamento personale.
Per molti millenni dopo la sua comparsa l’Homo sapiens non si distinse culturalmente dai suoi parenti neandertaliani. La modernità anatomica dei sapiens precedette ampiamente quella culturale, i cui inizi risalgono a circa 80mila anni fa. I siti archeologici di varie regioni africane (soprattutto nella parte meridionale del continente) testimoniano la comparsa in quell’epoca di nuove tecniche di lavorazione della pietra. Questi metodi erano mirati a produrre schegge molto strette e allungate, a partire dalle quali si svilupparono microliti, strumenti di dimensioni ridotte che permisero la creazione di armi da lancio ancora più sofisticate di quelle esistenti fino a quel momento.
Questi cambiamenti culturali furono accompagnati dalla comparsa di armi in osso e dal consumo intensivo di risorse marine. E anche dall’apparizione di oggetti come i monili ottenuti da conchiglie perforate (ornamento personale ma anche elemento di identità di gruppo), o di disegni geometrici su frammenti di ocra o di guscio di uova di struzzo, che dimostrano un incipiente sviluppo di codici simbolici di cui ignoriamo, però, il significato. Inoltre, l’origine di alcune rocce usate per
l’intaglio e la preparazione delle collane si trova a grande distanza dagli insediamenti dove si effettuavano queste operazioni, il che indica l’esistenza di reti commerciali.
L’esodo sapiens
Oggi i progressi scientifici permettono di usare delle frazioni di DNA, come il cromosoma Y (che si trasmette per via maschile), per ricostruire le tappe della nostra specie. Questo lungo cammino iniziò all’incirca 70mila anni fa grazie a un piccolo gruppo di sapiens africani che, decimato dai rigori del clima, si trovava isolato in qualche angolo dell’Africa orientale ed era dotato della capacità di sviluppare un comportamento simbolico e moderno. La porta di uscita verso il resto del mondo fu un passaggio (oggi sommerso per l’innalzamento del livello del mare) nello stretto di Bab el-Mandeb, tra il mar Rosso e il golfo di Aden, che separa il Corno d’Africa dalla penisola Arabica. Seguendo vie costiere, i nostri antenati dovettero raggiungere l’India: a Jwalapuram sono state trovate tracce della presenza dell’Homo sapiens risalenti appunto a circa 70mila anni fa.
Da questa zona dell’Asia meridionale, alcuni gruppi proseguirono il cammino verso l’Estremo Oriente e arrivarono in Australia circa 50mila anni fa, o forse addirittura prima. In quel momento questi gruppi sapevano già usare imbarcazioni rudimentali. Le barriere climatiche e ambientali probabilmente ritardarono l’arrivo in Europa, che avvenne attorno ai 45mila anni fa attraverso il Mediterraneo orientale, a partire da un gruppo proveniente dal continente asiatico.
Infine, i sapiens che si insediarono in Asia centrale furono responsabili di un’ondata espansiva che, approssimativamente 15mila anni fa, li condusse, tramite le terre allora emerse dello stretto di Bering, alla conquista dell’immenso continente americano.
Neandertaliani e denisoviani
Quando i sapiens intrapresero il grande esodo dall’Africa non erano soli sul pianeta. Altre specie umane – frutto di migrazioni più antiche, come l’Homo erectus – sopravvivevano in varie regioni dell’Eurasia. L’ipotesi dell’ “Eva africana”implica che la nostra specie, una volta giunta in quelle terre, si sostituì alle al-
tre. Ma le ultime scoperte sulla relazione che l’Homo sapiens stabilì con due di loro, neandertaliani e denisoviani, hanno modificato alcune idee sul modo in cui i nostri antenati conquistarono il pianeta. I neandertaliani, discendenti degli heidelbergensis, avevano abitato l’Europa per millenni. Scomparvero circa 30mila anni fa nella parte meridionale del continente, in concomitanza con l’arrivo nel loro territorio dei sapiens.
Oggi sappiamo che, tramite scambi sessuali, i neandertaliani trasferirono circa il due per cento del proprio genoma a tutte le attuali popolazioni non africane. Gli incroci probabilmente furono molto intensi: uno dei fossili più antichi di Homo sapiens rinvenuti in Europa, a Pes,tera cu Oase (Romania), risalente a 40mila anni fa, contiene fino al nove per cento di genoma neandertaliano.
Il caso della grotta di Denisova, nella regione siberiana dell’Altaj, in Russia, è ancor più sorprendente. I denisoviani sono l’unica specie umana che è stata definita solo attraverso il DNA. Gli scarsissimi resti fossili dei denisoviani contengono così poche informazioni che inizialmente si è creduto fossero neandertaliani. Di fatto, entrambe le specie provengono da uno stesso tronco comune e iniziarono a separarsi non più di 400mila anni fa.
I denisoviani hanno contribuito fino a un cinque per cento al genoma delle popolazioni di regioni tanto diverse come l’Oceania, l’Oriente Euroasiatico e l’America.
Eravamo così diversi?
Neandertaliani e denisoviani hanno lasciato la loro impronta genetica in tutti gli umani attuali non africani. Il loro contributo, per quanto modesto, suggerisce che l’esodo della nostra specie e il suo incontro con altri esseri umani sia stato molto più complesso e molto più denso di sfumature di quanto avremmo mai potuto immaginare. In considerazione di questi ultimi dati genetici, si dovrebbe dare per buona la vecchia ipotesi multiregionale? E accettare che le differenze biologiche, culturali e sociali tra neandertaliani e sapiens fossero molto minori di quanto ritenuto tradizionalmente?