Bentornato perditempo
Controtendenza INTELLETTUALE E MODERNO, IL FLÂNEUR 2.0 È LA NUOVA FIGURA DEL CREATIVO. È MOLTO ALLA MODA E SEMPRE «CONNESSO». MA È ANCHE UN GRANDE ANTICONFORMISTA, PERCHÉ SA CONCEDERSI IL LUSSO DELLA RIFLESSIONE.
N ESORDIO alla Saatchi Gallery di Londra, nella scorsa primavera, con il titolo Wanderland (da «to wander», passeggiare o vagare), una lunga permanenza autunnale a Parigi (fno al 5 ottobre alle Berges de Seine, Port de Solferino) e la previsione di arrivare a Dubai nel gennaio 2016 per poi viaggiare nelle città dell’asia. È la mostra Dans l’oeil du fâneur, organizzata da Hermès, curata da Bruno Gaudichon e con la scenografa di Hubert le Galle, che ha riportato il fâneur all’attualità. La parola, intraducibile in italiano, defnisce una fgura di strano intellettuale, battezzata così da Charles Baudelaire a metà dell’ottocento, ed è un «gentiluomo che gira per le strade della città provando emozioni nell’osservare paesaggi, gente e luoghi attraverso uno sguardo vago». Un’altra caratteristica di questo atipico esploratore del sociale è quella di avere una memoria potente, capace di trasformare in creatività, inaspettatamente e al bisogno, quelle sensazioni che ha provato passeggiando vagamente e che così diventano poesie o romanzi, quadri, a volte flm e perfno tendenze della moda. A causa del fatto che per essere fâneur occorre avere molto tempo a disposizione, questo «autore di rifessioni» si era perso nei meandri delle trasformazioni sociali del Novecento, tra le rivoluzioni industriali, i vari dopoguerra e la nascita della modernità, fattori che hanno preteso di più la velocità dell’azione penalizzando la lentezza della rifessione. Oggi che la velocità e la tecnologia di internet ci hanno tolto quel piacere che pure sappiamo di poter provare ognivolta che riusciamo a mettere un intervallo tra il pensiero e l’azione, ora che selfe e post sui social network ci distraggono da quello che vediamo e non ci permettono di fssare nella memoria nessuna esperienza, sembra strano che il fâneur possa ritornare di attualità.
S S «ignori si nasce, non si diventa» si dice in Italia. Neanche fâneur «si diventa». Flâneur si nasce. E non tutti quelli che si proclamano tali sono adatti a esserlo. Del resto, si tratta di una defnizione a doppio taglio: può signifcare «borghese dilettante con molto tempo libero a disposizione», oppure «osservatore e commentatore della vita cittadina». Siccome sono un giornalista di moda, credo di essere circondato da diversi fâneur, di cui apprezzo la capacità di assorbire un’enorme quantità di arte e cultura. Ad esempio, in un recente viaggio a New York, molti di loro, me compreso, hanno iniziato la giornata visitando la mostra China Through the Looking Glass, al Costume Institute, poi tutti a Midtown per le retrospettive di Bjork e di Yoko Ono e, infne, al Meat Packing District per vedere il nuovo Whitney Museum progettato da Renzo Piano. Certo, in fondo la parola fâneur signifca «passeggiatore», ma sto parlando di una passeggiata stimolante fatta in una sola mezza giornata. E prima di assitere a una sflata.
La parola chiave del fâneur è «anticonformismo», cioè il rifuto della banalità piccolo borghese. Che si lega a un’altra caratteristica del «fâneur nato», cioè l’amore per gli abiti. E questo lo trasforma in fashionista, una categoria in cui si possono individuare due floni: gli amanti del classico e gli amanti dell’avanguardia. Tra i primi metterei i seguaci di Adolphe Menjou, il dandy hollywoodiano la cui autobiografa s’intitola It Took Nine Tailors (Ci sono voluti nove sarti), o di George Clooney, il cui stile impeccabile corrisponde alla sua meravigliosa voce seducente. Tra i secondi, sicuramente si può trovare lo stylist londinese William Gilchrist, il cui stile mescola James Bond e Keith Richards, l’attore francese Louis Garrel, la cui preferenza per gli abiti da sera blu notte lo fa sembrare la versione moderna di Jacques de Bascher, il più grande dandy parigino della moda degli anni Settanta. Detto tra noi, però, molti di questi fashionistas oggi si vestono con abiti
voluminosi e vistosi per attirare gli obbiettivi delle macchine fotografche dei blogger che si affollano davanti agli ingressi delle sflate ma che nessun negozio metterebbe in vendita.
POCHI SCRITTORI hanno saputo descrivere bene il fâneur come Charles Baudelaire che, nel 1863, su Le Figaro, lo ha defnito «un principe che gioisce ovunque in incognito. L’amante della vita che fa del mondo la sua famiglia, proprio come chi ama le donne e fa di tutte le donne la propria famiglia». Internet ha cambiato il signifcato? Probabilmente no. Ma i fâneur digitali non sono quelli che si vestono per attirare l’attenzione, perché così facendo perdono l’autonomia di stile, che è il punto cruciale del fâneur. Come invece ha previsto Susan Sontag, i nuovi fâneur sono i fotograf che catturano il teatro urbano dell’umanità dell’attuale cultura «Me Myself and I» che esprimono tutti coloro che si vestono per farsi fotografare. Di certo, i più grandi fâneur della moda sono gli stessi designer. Molti sono conosciuti proprio per i loro look caratteristici: Giorgio Armani con la sua giacca destrutturata; Yves Saint Laurent per il suo