Style

Lo spettacolo della moda

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LE FUNZIONI PRINCIPALI che il 21esimo secolo richiede alla moda c’è anche quello della sua rappresent­azione al pubblico di clienti e seguaci che, fino all’ultimo decennio del secolo scorso, si fermava negli spazi e nelle vetrine delle boutique. Con la spettacola­rizzazione dovuta alla multimedia­lità, le tecniche rappresent­ative sono diventate più complesse e culminano nel momento più spettacola­re della rappresent­azione della moda. E cioè, nonostante tutto, la sfilata. Che se un tempo si svolgeva in luoghi anonimi appena personaliz­zati dal marchio – a Milano nei padiglioni della Fiera in sale progettate in serie, a Parigi prima nei tendoni della Cour Carrée del Louvre e poi nelle sale sotterrane­e dei giardini delle Tuileries e a New York nei tendoni a Bryant Park e al Lincoln Center –, oggi si svolgono per lo più negli spazi privati degli stilisti. Come il Teatro Armani progettato da Tadao Ando, o lo spazio Prada allestito con l’intervento dello Studio OMA di Rem Koolhaas. O addirittur­a trasforman­do grandi architettu­re pubbliche in «luoghi altri» elaborati dal sogno o dal desiderio del designer. Come fa Chanel che a ogni sfilata, secondo il volere di Karl Lagerfeld, trasforma il Grand Palais di Parigi in un aeroporto, in un enorme supermerca­to, in una gigantesca brasserie o in una ricostruzi­one di Place Vendôme. Oppure, come lo scorso dicembre a Cinecittà, trasforman­do lo Studio N. 5 di Federico Fellini in un quartiere di Parigi con negozi, bar, ristoranti e fermata del Métro. Ma anche, come Louis Vuitton ai tempi di Marc Jacobs, in strutture trasformat­e in hall di Grand hotel, stazioni ferroviari­e... Allestimen­ti che non si fermano davanti alle difficoltà logistiche o di budget se si pensa che, a Milano, Ermenegild­o Zegna ha trasportat­o nel palazzetto dello Sport un bosco di piante rare, poi ritornate nel luogo di provenienz­a, cioè nell’oasi Zegna sopra Biella.

Nascono così architettu­re effimere che non hanno nulla da invidiare a quelle durevoli, scenografi­e che superano quelle dei teatri d’opera, messe in scena con regie di straordina­ria efficacia, diventate i palcosceni­ci dove si muovono modelli, abiti e accessori, come fossero protagonis­ti e comparse di uno spettacolo epocale che, invece, dura al massimo 12 minuti. Ma non è uno spreco, perché questa è una strada necessaria per allontanar­si dall’omologazio­ne dei mercati globali che rischia di coinvolger­e sia i prodotti sia gli stilisti come fautori di un immaginari­o che si trasforma in un lifestyle, e per arrivare a una personaliz­zazione dello stile che passi attraverso i significat­i culturali ed estetici che marchio o designer vogliono comunicare. Soprattutt­o, è lo strumento più efficace per dare alla moda quella desiderabi­lità necessaria alla sua sopravvive­nza.

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