Di corsa in aeroporto A
A Narita un terminal sorprendente. Praticamente un’arena Con divani firmati Muji, tavoli di legno di quercia per il ristorante... DI LUCA ROSCINI corridoi pieni di pubblicità iperboliche, tapis roulant che accelerano la camminata, corse affannate con tro
non appartenenti e che hanno caratteristiche simili in qualsiasi parte del mondo, indipendentemente dal contesto geografico e culturale.
Forse per ribellarsi a questa sorta di «globalizzazione» estetica, o per contrastare lo spleen del viaggiatore, o magari sull’onda della diffusione delle aerotropoli (bizzarro trend dell’urbanistica contemporanea che vuole l’aeroporto centro non solo geografico delle città del futuro), l’aeroporto di Narita a Tokyo ha fatto realizzare un terminal (il numero tre per chi fosse di passaggio) con tratti distintivi così unici da non farlo somigliare a nessun altro scalo esistente.
D’altra parte la tendenza di arricchire luoghi pubblici anonimi con progetti di design spesso
firmati da archistar sta di recente trasformando altri scali internazionali importanti: Norman Foster si sta occupando della costruzione del nuovo aeroporto di Taiwan in Cina e di quello di Città del Messico, mentre Zaha Hadid è alle prese con il progetto di Beijing che prevede il flusso di ben 45 milioni di passeggeri al giorno.
Il terminal di Narita, invece, è stato affidato allo studio di architetti giapponesi PARTY (in collaborazione con Nikken Sekkei) ed è stato definito dagli stessi ideatori un «aeroporto low-cost» sia per quanto riguarda l’architettura, sia per il design economico. Evitando di installare i tipici tapis roulant e le poco ecologiche insegne luminose, sono riusciti a costruire la struttura e gli interni spendendo la metà del budget.
IL PROGETTO è STATO CONCEPITO, con un anticipo da far sbiancare noi italiani, in omaggio ai non proprio imminenti Giochi Olimpici (che si terranno nel Paese del Sol Levante nel 2020): le corsie ricordano le piste di atletica degli stadi sportivi, gli spazi si suddividono secondo geometrie che riprendono l’estetica delle moderne arene agonistiche; centinaia di metri caratterizzati da colori accesi e differenti per agevolare i procedimenti di check in, imbarco e scalo velocizzando così le troppo lunghe tempistiche aeroportuali. L’arredamento? È opera di Muji, il brand made in Japan dallo stile essenziale quanto ecologico: 400 divani per l’attesa nelle tinte del verde, blu, ruggine e bianco, mentre tavoli e sedie della zona ristoro (che con i suoi 450 posti a sedere è la più grande di tutto il Giappone) sono realizzati in legno di quercia.
E NON è LA PRIMA VOLTA che il Narita Airport sponsorizza proposte decisamente inconsuete, se non addirittura avveniristiche, per non venir meno alla morbosa passione del Paese nei confronti della tecnologia. Da pochi mesi, e non senza clamore, è stata inaugurata la prima toilette con le pareti esterne a led: apparentemente da fuori si intravedono le sagome degli utenti dei servizi igienici, in realtà si tratta di ombre riprodotte in schermi mentre ballano, saltano oppure usano lo skateboard lavandosi le mani o scaricando il wc. Ancora più di recente dagli operatori di terra sono state adottati megafoni (chiamati megahonyaku, prodotti da Panasonic e ancora in fase di test) che traducono le frasi pronunciate in lingua giapponese direttamente in inglese, cinese e coreano. Sempre in previsione dell’importante afflusso di stranieri previsto per i Giochi olimpici. Tra quattro anni.
BUDGET RIDOTTO, tecniche innovative, pieno rispetto dell’ambiente. In mezzo al deserto del Negev. È la scommessa vinta con la scuola di Al Jabal, grazie alla quale i ragazzi della comunità beduina di Abu Dis non sono più costretti a studiare in container senza finestre. Un progetto nato grazie a un bando delle Nazioni Unite, vinto dalla ong italiana Vento di Terra e progettata da Arcò, uno studio milanese che si occupa di architettura e cooperazione.
La struttura in muratura è stata realizzata, in appena quattro mesi, con gabbie di rete metallica riempite di pietra a spacco, che riprendono lo stile delle costruzioni a secco della zona. «Abbiamo usato solo materiali locali» dice Alessio Battistella, tra i fondatori di Arcò. «Tutto è stato costruito o reperito in loco, non c’è nulla di prefabbricato: nessuna spesa di trasporto, quindi, e inquinamento ridotto a zero». I muri, spessi 80 centimetri, garantiscono un’eccellente inerzia termica: questo significa che la scuola resta fresca d’estate e calda quando la temperatura scende. Anche le maestranze sono locali, istruite ad hoc per diventare autosufficienti: «Il nostro è un cantiere-scuola» spiega Battistella, «terminata la costruzione abbiamo lasciato appositi manuali di manutenzione».
Al Jabal è l’ultimo degli 11 progetti realizzati da Arcò in contesti «difficili», tutti con tecniche sperimentali: come la scuola di Al Khan Al Ahmar, sempre in Palestina, costruita con pneumatici riempiti di sabbia. E se è vero che la sostenibilità è il futuro dell’architettura, allora questi principi possono e devono essere applicati anche alle nostre latitudini: prova ne è il Sustainability Hub creato nella settecentesca Cascina Cuccagna, nel cuore di Milano, per comunicare il ciclo di compostaggio delle cialde del caffè. Grazie all’impiego di materiali riciclabili e agli ampi spazi di luce, garantisce un ambiente adatto alla coltivazione di piante. Ma è anche spazio di accoglienza, condivisione e integrazione.