L’OPERA CHE BRUCIA
Nunzio: una ricerca mai finita (e iniziata a 24 anni). Con (anche) il talento di saper dare.
SCUSI, «perché brucia il legno?». «Mah… Non sono un piromane, uso il processo della combustione per cambiare i connotati del materiale che ho scelto, in se stesso troppo piacevole. Lo rispetto ma cerco di estrarne il fossile, l’ombra». Nunzio, che mi racconta queste cose, è uno dei più importanti scultori italiani: ancora giovanissimo ha esposto in gallerie mitiche come L’attico a Roma e da Annina Nosei a New York; a soli 32 anni ha vinto il Premio 2000 della LXII Biennale di Venezia; e dal 2008 è Accademico di San Luca. Ma, benché potente e riconoscibile, non si è mai ancorato a uno stile. «Sì, in effetti lo stile è un’arma a doppio taglio, una gabbia… Però ti racconto un aneddoto: a 24 anni non ero più sicuro di continuare sulla strada dell’arte e ho cercato di guardare a tutto quello che avevo fatto fino a quel momento con freddezza assoluta, come se fossi un altro… Era un pomeriggio di maggio e io ho riconosciuto qualcosa di intrinseco, oltre alle apparenze: uno stile se vuoi… Per questo sono ancora qui».
La ricerca, tuttavia, non è mai finita e così i rischi: «Comincio un’opera come reazione a qualcosa che non conosco… Prima ci sono pause, stati quasi d’inerzia. Poi tac! Scatta una necessità interna e allora il coinvolgimento può essere febbrile, oltre che impegnativo in senso psicofisico, perché parecchi processi li posso seguire, ed eseguire, solo io». Eppure, dallo studio di Nunzio sono usciti giovani artisti che accanto a lui hanno trovato lo spazio giusto per scoprire se stessi. «Sì, ma non sono i miei assistenti. Con loro ci sono scambi importanti perché io sono curioso, mi piace dare: ho avuto amici, come Toti Scialoja, che mi hanno dato tanto e io cerco di fare altrettanto. Il mondo ne ha bisogno».