È ANCORA UNA BUONA IDEA?
CON LE RETTE CHE SALGONO E GLI STIPENDI CHE SCENDONO BISOGNA FARE CHIAREZZA. E VALE LA PENA PORSI DELLE DOMANDE.
PREPARARE I GIOVANI per «i dieci mestieri più richiesti del futuro non è semplice perché quei lavori ancora non esistono e verranno svolti usando tecnologie che ancora non sono state inventate» disse Richard Riley che fu ministro dell’istruzione nella Casa Bianca di Bill Clinton. Dietro l’eleganza antica dei campus delle grandi università anglosassoni si moltiplicano le fibrillazioni di un ambiente accademico che, in America come in Inghilterra, si interroga su come dovrà evolversi per affrontare le sfide di un mondo che sta cambiando alla velocità della luce: basta pensare alle tecnologie digitali, alla concorrenza delle università dei Paesi emergenti – dalla Cina all’india, da Abu Dhabi a Singapore – e alla radicale trasformazione del mondo del lavoro.
Di impieghi fissi e ben retribuiti che il neolaureato può sperare di ottenere e mantenere per molti anni, ce ne sono sempre meno. Fin qui tutto ciò, anziché disincentivare le domande d’ammissione alle università americane e inglesi (assai costose, soprattutto quando sono blasonate), ha provocato un maggiore afflusso di aspiranti studenti. L’idea è che, se si è in tanti a concorrere per pochi posti di lavoro, avere
Sopra, il Trinity College dell’università di Cambridge. Nella pagina a fianco, uno studente brinda alla laurea di fronte alla biblioteca Bodleiana dell’università di Oxford e, sotto, la King’s School di Canterbury, a un’ora da Londra. una laurea a Yale o Harvard può essere un vantaggio decisivo. È davvero così? Lo sarà anche in futuro? E come cambia la gerarchia delle migliori accademie? Sono domande alle quali cercano di dare risposta un’infinità di riviste e siti specializzati: una vera industria dell’informazione universitaria (che produce anche un esercito di consulenti) nata, soprattutto negli Stati Uniti, dall’atteggiamento famelico della famiglie che, puntando all’eccellenza accademica per i loro figli, cercano di metterli in pole position per l’accesso alle università migliori fin dagli anni dell’asilo.
LA CALMA OLIMPICA nella quale hanno vissuto per decenni i campus anglosassoni, forti dello stretto rapporto degli istituti americani col mondo delle imprese e del metodo educativo inglese che punta a formare uno specialista competente plasmando, al tempo stesso, il temperamento dell’uomo, è svanita per l’impatto di vari fattori. Negli Usa il fortissimo aumento dei prezzi, con accademie che ormai costano 60 o anche 70 mila dollari l’anno tra rette e quote per il dormitorio, ha indotto molti a chiedersi se un simile sforzo abbia economicamente senso: anche chi trova un lavoro spesso riceve uno stipendio non elevato col quale fatica a pagare le rate del prestito (si arriva facilmente a 2-300 mila dollari) che ha contratto per mantenersi agli studi, se non ha alle spalle una famiglia facoltosa. In Gran Bretagna, dove le rette universitarie sono più basse, l’emergenza è iniziata con la Brexit: è forte il calo di domande di studenti stranieri, mentre anche la maggioranza dei 32 mila cittadini dell’europa continentale che lavorano nel sistema scolastico britannico afferma, nei sondaggi, di essere orientata a lasciare la Gran Bretagna.
Pessime notizie per un Paese nel quale l’istruzione è una delle principali industrie (750 mila posti di lavoro e circa 95 miliardi di euro di fatturato) grazie pure ai docenti dell’ue e ai 127 mila studenti arrivati da tutta Europa. Anche per questo il governo di Theresa May ha deciso di confermare per il 2018 i contributi pubblici fin qui erogati agli studenti stranieri. Ma il futuro ora è più incerto. Perfino a Cambridge, l’ateneo britannico migliore e più selettivo, le domande sono calate del 19 per cento.
In ogni caso quelli inglesi restano tra i migliori atenei del mondo e sono anche molto convenienti, almeno a confronto con quelli americani. A parte l’eccellenza di Oxford e Cambridge e di alcune accademie londinesi, da UCL a LSE (cioè University College London e London School of Economics), dall’imperial College per le materie scientifiche al King’s College per Giurisprudenza e altre discipline umanistiche, hanno raggiunto livelli di eccellenza anche molte sedi più «periferiche»: da Durham a Warwick, da Bristol a Bath, fino
agli atenei scozzesi di Edimburgo e St. Andrews. Alcune di queste università, però, possono essere molto costose se non si viene accettati con le facilitazioni riservate ai cittadini Ue.
MAI COMUNQUE come quelle americane i cui costi, esplosi negli ultimi anni, sono al centro di un acceso dibattito. Una crescita insana, oltre che eccessiva, visto che, a fronte di un modesto incremento delle spese d’insegnamento, c’è stato un boom di quelle amministrative per il forte aumento degli stipendi di manager e impiegati, per la costruzione di centri sportivi e ricreativi e di nuovi sontuosi padiglioni affidati a grandi architetti: gli atenei, che somigliano sempre più a imprese commerciali, cercano infatti di attirare studenti non con la qualità dei corsi ma con l’offerta di attività per il tempo libero. Università che, dice l’ex ministro del Lavoro Usa Robert Reich, «somigliano sempre più a dei country club». Ciononostante l’america offre sempre accademie eccellenti. Non solo quelle famosissime come Harvard, Princeton o Columbia: ne stano emergendo tante altre come Duke in North Carolina o, tra le pubbliche, la University of Michigan di Ann Arbor, la sezione di Austin della University of Texas o, per gli ambientalisti, il SUNY College of Environmental Sciences and Forestry di Syracuse, nel Nord dello Stato di New York. Ma vale la pena investire centinaia di migliaia di dollari in un mondo nel quale l’americano medio di 38 anni ha già cambiato da dieci a 14 lavori, e nel quale si stanno diffondendo i MOOC, i corsi universitari online?
Una risposta sintetica (e generica) è che, per certe specializzazioni vale ancora la pena di fare di tutto per essere ammessi agli atenei americani, se non altro per il loro stretto collegamento col mondo del lavoro (assunzioni, laboratori di ricerca, creazione di nuove start up): se vuoi essere un «computer scientist» non c’è università cinese, indiana o giapponese che possa competere con Stanford, nel cuore della Silicon
Appendere al muro una laurea prestigiosa non basta più per sentirsi al sicuro. L’istruzione è un processo continuo.
Valley. Tutto ciò vale soprattutto per le materie scientifiche, le cosiddette STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Ma vale, in casi limitati, anche per quelle umanistiche, le STEAM, dove la A aggiuntiva sta per arte, studiata però con l’attenzione rivolta alla tecnologia. E, se vuoi diventare curatore in un museo americano, una laurea umanistica ad Harvard aiuta più di un titolo di studio europeo.
Ma chi punta a un college di «liberal arts» senza avere ancora chiare idee sul futuro, forse è meglio che risparmi studiando in Europa e spenda piuttosto dopo, per un master o una scuola di specializzazione americana post-laurea. Anche perché, se i profeti dei MOOC destinati a spazzare via i campus con le loro lezioni democratiche (e gratuite) online sono stati smentiti (il contatto con la struttura accademica, gli insegnanti e gli altri studenti è insostituibile), tuttavia è sempre più evidente che in futuro non basterà appendere al muro una laurea prestigiosa per sentirsi al sicuro per sempre: l’istruzione diventa un processo continuo, che dura per tutta la vita.