Tutto un altro calcio
In Senegal, nell’accademia dove si creano i futuri campioni. Non solo del pallone. «Voglio essere libero, con lo studio o con lo sport non importa».
SI CAMMINA PIANO a Dakar, testa alta e spalle indietro, ieratici, a proprio agio nel tempo. Chi sembra di fretta, in realtà sta praticando qualche sport. Al tramonto la città, dai marciapiedi alla battigia, si riempie di comitive di podisti, di ballerini sincronizzati, di giovani che macinano flessioni in cerchio come petali di un fiore. Le migliaia di attrezzi pubblici per il fitness che si distendono sulla corniche vengono presi d’assalto, tanto da dover essere ritinteggiati di blu e di giallo con buona frequenza. Anche a mezzogiorno, nei campi da basket in cemento giocano decine di persone, così come in quelli da calcio, delimitati da file di copertoni piantati nella terra. Nello studentato dell’università Cheikh Anta Diop, quasi la metà delle maglie stese sull’erba del cortile ad asciugare portano nomi di campioni sportivi, Leo Messi e Cristiano Ronaldo in testa. Le tribune degli stadi di lotta senegalese sono affollati, gli organizzatori lanciano pezzi di baguette al pubblico che balla a occhi socchiusi nel frastuono delle percussioni: gli atleti, nel ring di sabbia, vengono acclamati come eroi (guadagnano fino a 250 mila euro per un incontro, lo stipendio medio nazionale è di 150 al mese). Questo lavorio di fasci muscolari è dominato dalla statua della Renaissance africaine, di fabbricazione nordcoreana, alta 49 metri: una famiglia di bronzo posta sull’estrema propaggine occidentale dell’africa, verso l’america, in cui l’uomo ha un fisico da centometrista olimpionico. Una Statua della Libertà anabolizzata.
«Diventare uno sportivo è il sogno di riscatto più diffuso tra i ragazzi» dice Franck Kanouté, promessa 19enne di proprietà del Pescara che nell'ultima stagione ha giocato con l’ascoli in Serie B: «I più forti a calcio vengono come me dalla regione di Casamance: è un dono di Dio». Dopo il diploma si è trasferito a Dakar per diventare professionista. «Vivevo distante dal campo, a casa di mio zio, mi svegliavo alle cinque, prendevo il bus senza biglietto, se il controllore mi beccava mi toccava scendere e fare preriscaldamento» sorride il centrocampista. Poi fu notato dalla Juventus, dove si è formato. «A
me è andata bene ma per noi l’europa è un rischio. Certi procuratori si fanno dare i soldi dalla tua famiglia per viaggio e mantenimento promettendo successo sicuro, e ti portano in giro per provini un paio di mesi. Dopo, se non ti compra nessuno, affari tuoi: non ti pagano neanche il biglietto di ritorno». Per questo Kanouté è un sostenitore della Spes Academy. Fondata nel 2015, non valorizza solo il potenziale calcistico dei giovani africani ma, oltre a offrire loro vitto e alloggio, li supporta anche in un percorso di crescita umana, professionale e scolastica. Il motto dell’accademia è «Spem in Iuventute Ponemus». Dice Franck: «Per i ragazzi dei villaggi subsahariani resta un’occasione di vita migliore, a prescindere da un eventuale ingaggio».
La sede della Spes si trova a Thiès, seconda città del Senegal a 80 chilometri da Dakar, dove è raro vedere un paio di jeans, un piatto di pasta, un bianco. È una villa coloniale a due piani con finiture blu cobalto. Ci abitano 19 ragazzi tra i 14 e i 19 anni, divisi in tre camerate. Altri nove vivono nei dintorni. Sono 28 senegalesi e un camerunense. Nell’edificio tre bagni con doccia e, al piano terra, una cucina, un’aula per le elementari e una per le medie. Davanti ai muri rivestiti di carta da parati ci sono tv e lavagne. Ragazzi in completi blu a maniche corte ascoltano insegnanti in bubù, il vestito tradizionale. Fuori, cantano i galli e belano le capre.
«Prima di inserirli in una classe li sottoponiamo al test di cultura generale» dice Elhadji Sarr, responsabile didattico dei dieci professori dell’accademia. C’è chi ha già studiato cinque o sei anni, chi non spiccica una parola di francese: solo wolof, la lingua locale. «Certe stime statali parlano di un tollerabile sei per cento di analfabetismo, ma qui, su una trentina di ragazzi, almeno dieci non sapevano tenere la penna in mano». Nonostante la scuola in Senegal sia obbligatoria, in molti villaggi mancano le strutture. «Capita che i genitori preferiscano farli lavorare e insegnargli il Corano a casa» spiega Sarr. Nell’accademia i ragazzi imparano il francese, l’italiano, l’inglese, la matematica. Due di loro hanno conseguito qui il diploma delle medie. Sono Moctar Berthé e Seydina Omar Thiandoum, 18enni. «Ho capito che non è scontato fare carriera nel calcio. Il mio sogno è guadagnare per essere libero, con lo
studio o con lo sport non importa» dice Moctar, ala destra. Seydina spiega: «Mi piace leggere, non solo giocare. Il mio libro preferito è Una così lunga lettera di Mariama Bâ». Parla della difficoltà di due donne della borghesia senegalese ad adeguarsi alla poligamia. A Seydina, mediano caparbio, mette voglia di combattere, con frasi come: «Ogni esistenza racchiude in sé una briciola d’eroismo fatto di abnegazioni, rinunzie e acquiescenze sotto l’impietosa sferza della fatalità».
L’ATTEGGIAMENTO DI QUESTI ragazzi all’inizio ha stupito l’allenatore Giuseppe Martino, 22 anni, che punta a vincere la Coupe du Senegal under 19 e che vive di fronte alla sede, in una dependance con grandi vetrate al di là di un cespuglio di melanzane. «Sono quasi miei coetanei ma mi trattano con deferenza. Alcuni miei colleghi si fanno portare il cibo a domicilio da loro, che accettano senza battere ciglio. Figurati cosa risponderebbe un 17enne italiano» racconta. La società senegalese è modellata dalle confraternite musulmane, in particolare dall’autoctona Muridiyya, che riunisce un terzo della popolazione e dove è nevralgico il ruolo del marabù, il maestro spirituale. Scriveva il fondatore, Amadu Bamba Mbacké: «Bisogna rinunciare al proprio libero arbitrio, perché il pensiero del maestro è inattaccabile».
L’ex calciatore Joseph Dayo Oshadogan, oggi presidente della Spes Academy, dice: «La cosa più difficile è mettere in testa ai ragazzi la mentalità. Cioè, io rispetto mia mamma, a volte però non sono d’accordo con lei. Invece qui i vecchi hanno ragione a prescindere. Ma se tu non sei un po’ ribelle campione non lo diventi». Oshadogan, padre nigeriano e madre italiana, primo calciatore di origine africana convocato dall’under 21, continua: «Ho giocato la Champions League, questo sport lo conosco, e so che su 100 ragazzi sfondano in uno o due. Per questo alla Spes l’istruzione viene prima del resto». Eppure, come capita a tutti gli ex giocatori, quando parla di calcio gli si illuminano gli occhi. «Mi metto in contatto con i sindaci dei villaggi per organizzare partite in ogni angolo del Senegal e oltre. A volte si presentano 500, 600 ragazzi per giocare su un cam-
po di sabbia. Formo squadre col 4-3-3 per vedere più attaccanti. Se non c’è nessuno bravo fermo i match dopo cinque minuti. Ma a volte di bravi ce ne sono eccome. E guarda che fisici» spiega indicando la squadra che fa riscaldamento sul terreno gibboso. «Ovvio che qui le strutture non sono quelle europee. Ma io avevo un debito con l’africa. Anche se mi sento pisano le mie radici sono pure qui. Ho cercato degli investimenti, ho deciso di fondare l’accademia nel Paese più stabile della regione». Ci sono altre accademie in Senegal, quasi tutte affiliate a club europei, in particolare francesi. «Noi invece siamo liberi, aperti al mercato».
PER LO SCOUT dell’empoli Claudio Calvetti, a Dakar per assistere alla Spes Cup 2018 che si è tenuta a giugno nello stadio Iba Mar Diop e che ogni anno coinvolge sei fra le migliori squadre under 19 del Paese, l’africa ha un futuro calcistico più roseo dell’europa: «Una volta in Italia addirittura l’urbanistica aiutava. Si costruivano condomini col cortile interno, e i ragazzi non avevano altro da fare che scendere giù e correre dietro a un pallone. E poi frequentavamo gli oratori. E cosa fai all’oratorio se non giochi a calcio? Ora ci sono i boschi verticali e i tablet». Perfino durante il torneo, vinto ai rigori dall’agorà Foot contro la Spes, orde di giovani non smettono di saltare ostacoli nella pista di atletica che circonda il campo. Laszlo Kubalik, osservatore dello Žilina, squadra vincitrice di sette campionati slovacchi, anche lui sugli spalti dell’iba Mar Diop, dice: «Passione e fisico contano ma più vai indietro nel campo, più è difficile trovare un giocatore già pronto per l’europa. Un attaccante di talento può essere puro istinto mentre un portiere ha bisogno di un pluriennale allenamento specifico, che qui in genere manca». A mancare sono anche le proteste: in otto partite all’arbitro non è stato consigliato una sola volta di farsi un giro da qualche parte. «Una roba impensabile per le squadre giovanili italiane» dice Calvetti. Poi indica lo scatto di una punta: «I loro concorrenti non saremo di certo noi, ma i giovani delle banlieue parigine, che hanno anatomia africana e ambizione europea».