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I DICE «Venere in pelliccia». Ma anche Marte si copriva con le pelli animali perché il loro uso nasce dalla necessità dell’homo sapiens di proteggersi dal freddo. A farne le spese sono state, nei secoli, le altre specie viventi, soprattutto quelle che sembrerebbero partire avvantaggiate poiché sono dotate del vello.
Un po’ meno indispensabile rispetto agli esordi, la pelliccia assume una grande valenza simbolica quando le civiltà che l’uomo riesce a sviluppare si organizzano in ceti sociali, caste, ruoli differenziati, possibilità di accesso al potere e alla ricchezza fissate con rigidità gerarchica. E le classi ricche si appropriano della pelliccia che diventa uno status symbol e per questo viene ostentata. Di conseguenza, si scatena una gara senza freni né remore allo sfarzo, all’opulenza, allo splendore, alla rarità del pelo prescelto. Con il manto d’ermellino che diventa emblema estremo ed esclusivo di potestà sovrana. Di conseguenza, con l’evoluzione dell’assetto sociale, almeno nel mondo occidentale, il «bisogno» di vestirsi con la pelliccia dall’aristocrazia ricade sui ceti in precedenza subalterni: mercanti, proprietari terrieri, magnati dell’industria e della finanza, figure di spicco nel mondo dell’arte e dello spettacolo. Sottile, sotteso e insito nel sentire umano, l’abbaglio della vanità conserva intatto il suo potere irresistibile.
L’apparire è un dovere ma anche un piacere, è concessione all’autostima che non crea conflitti di coscienza, è una debolezza da cui ci si assolve senza troppi travagli interiori. Il confine tra vanità e trasgressione è labile. E qui forse individuiamo, tra l’altro, una chiave di lettura dell’epopea dandy. Un dato che non ci porta affatto a stupirci nel vedere gentlemen di tutti i tempi – con Oscar Wilde immancabile apripista – ritratti