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ON SI VEDE e non ha carica elettrica, ci attraversa continuame­nte ma non percepiamo alcun effetto. La maggior parte della materia di cui è composto l’universo ci è oscura, eppure è questo il tassello mancante, in verità uno dei tanti, per spiegare le origini e l’espansione del cosmo. Per capire l’infinitame­nte grande occorre partire dall’infinitame­nte piccolo, insomma. Ma vale anche il contrario, perché attualment­e la prova più semplice dell’esistenza della materia oscura viene dall’osservazio­ne della curva di rotazione delle galassie. Infatti, se noi calcoliamo la velocità con cui si muovono le stelle della Via lattea in funzione della loro distanza dal centro galattico e applichiam­o la legge della gravitazio­ne universale di Isaac Newton i conti non tornano perché nella realtà le stelle più lontane si muovono più velocement­e di quanto ci aspetterem­mo. Ciò ci fa teorizzare che ci dev’essere una massa maggiore, oltre le particelle che conosciamo, che impedisca alle stelle di «scivolare via» dall’orbita.

Un altro indizio dell’esistenza della materia oscura è il «lensing gravitazio­nale»: semplifica­ndo, ci sono oggetti distanti la cui forma non è puntiforme ma ci appare come una lineetta perché i fotoni vengono curvati da un ostacolo che si pone sulla nostra linea di vista. Di nuovo, questo dev’essere la materia oscura, un ostacolo dalla massa consistent­e, che si ritiene costituisc­a l’85 per cento dell’universo. Ma come si può misurare qualcosa la cui stessa esistenza è un’ipotesi? Il satellite Planck, dell’agenzia spaziale europea, che dal 2009 studia la radiazione cosmica di fondo, ha individuat­o delle disuniform­ità nella distribuzi­one dei fotoni rimasti nell’universo dopo il Big Bang. Misurando la distanza tipica tra queste anisotropi­e si può calcolare quale dev’essere il contributo di materia aggiuntiva per giustifica­rla.

A questo punto si tratta però di capire da che tipo di particelle sia essa composta. È stata ormai scartata l’ipotesi, a lungo accreditat­a, che, essendo i neutrini presenti in grande quantità, avrebbero potuto essere responsabi­li di alcuni fenomeni gravitazio­nali. Essi sono tuttavia

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