ESSERE O NON ESSERE A SCAMPIA
Anche senza le tre croci sul collo e l’occhio di vetro, non sono in pochi a fermarlo per un selfie. Eppure nel centro commerciale milanese (dove lo incontriamo per l’intervista dopo il servizio fotografico nel parcheggio) Arturo Muselli si sente quasi invisibile. «Dovrebbe vedere a Napoli…» sorride quando scegliamo un tavolo in disparte per proteggerlo dagli sguardi di chi lo riconosce come Sangue Blu, il rampollo di una delle maggiori famiglie camorriste di Napoli che interpreta in Gomorra. «Ma a me non dà fastidio. Finita la serie appendo l’abito al chiodo e penso ad altro». Per esempio al suo primo grande amore, il teatro (dove con la sua The Hats Company recita le opere di Shakespeare in inglese, settore in cui presto vorrebbe cimentarsi con la regia), ma anche al soggetto per un film che sta scrivendo («un biopic su uno storico personaggio straniero» si lascia scappare) e che gli fa brillare gli occhi azzurri. «Non riesco a stare senza sfide. Sono la mia droga. Mi faccio fagocitare totalmente dai personaggi, ho una sorta di dipendenza dal mio lavoro. Se mentre sto facendo altro vedo qualcosa che m’ispira, mi blocco
e penso solo a quello. Non è facile starmi dietro. A volte ho così bisogno dei miei silenzi, dei miei pensieri, che non riesco a staccarmene». È quasi una necessità fisica: «Ci sono delle immagini, dei sentimenti che si accumulano dentro di me e se non riesco a esprimerli sto male. Il mestiere dell’attore mi permette di canalizzarli, di concretizzarli in un personaggio».
Quello di Gomorra è un universo parallelo, c’è una sospensione del giudizio così forte, che come attore non entro eticamente in «conflitto d’interessi» con il mio ruolo.
Il primo omicidio di Sangue Blu, quando ammazza il padre del ragazzino disabile, è stato tosto. Ho parlato del mio stato emotivo con la regista Francesca Comencini: quella scena faceva soffrire entrambi. Ma c’è sempre stata l’idea di rendere tutto il più realistico possibile, cercando di non ingannare lo spettatore. Gomorra ha questa responsabilità di andare dentro le cose e non fermarsi rispetto a quello che deve colpire. Dobbiamo raccontare la bruttezza di un mondo.
È un cerchio da cui non si esce, popolato di personaggi che hanno deciso di sospendere la loro possibilità di vivere. Si può avere una simpatia per uno o per un altro, ma se qualcuno pensa che quelli siano eroi significa che c’è un problema più grande alla base.
Io ho vissuto in tutti gli ambienti di Napoli, e «Napul’è mille culure» come cantava Pino Daniele. Ero il ragazzo tranquillo a fianco al quale a scuola mettevano il ripetente o l’alunno più problematico, e io ho sempre parlato con tutti, senza giudicare. Il mischiarsi, il confrontarsi è in ogni caso positivo, invece l’emarginazione crea i ghetti, che non sono un bene per chi ci sta dentro e nemmeno per il resto della società.
Faccio fatica a pensare a un napoletano che non abbia nemmeno una minima percezione della camorra. Due anni prima di mettermi a sparare dai motorini sul set, io stesso ho assistito a una «stesa» (un’azione intimidatoria che costringe le persone a stendersi a terra per evitare