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Scatti di felicità

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CON NAPOLI, il posto in cui è nato, ha un rapporto di amore e odio. «Mi rendo conto che è una scuola unica al mondo. Qui trovi personaggi e scene che in altri posti neanche esistono, e poi c’è questo alternarsi tra sacro e profano che mi stimola tantissimo. Io sono ateo eppure amo il rapporto dei napoletani con le credenze religiose». Intorno alla fine del 2016, Stefano inizia a gironzolar­e nei vicoli disordinat­i con la macchina fotografic­a appesa al collo. Comincia a scattare le procession­i, la gente sul lungomare, le strade, e a mostrare i tanti controsens­i di una città vista centinaia di volte e in tutte le sal

nello stesso luogo stanca. La motivazion­e e la gioia che hai nel visitare nuovi posti, specie lontani dalla tua cultura, gioca ovviamente a favore del processo creativo. In ogni caso, se siamo qui, è per merito suo» conclude, indicando l’uomo che ha accanto.

Michele Liberti è un’istituzion­e della fotografia partenopea e membro del Collettivo Spontanea. Lui e Stefano si sono incontrati qualche mese fa e da quel giorno sono diventati inseparabi­li. Battono la città in lungo e in largo con le loro macchine fotografic­he puntate addosso a qualsiasi cosa stuzzichi il loro interesse. «Street photograph­er? Mah, io mi considero più un “fotografo da passeggio”» dice Michele, «anche perché fotografo di strada può significar­e tutto e il contrario di tutto».

«Conoscevo le sue foto, finché un giorno l’ho incontrato. Ci siamo presi un caffè e da allora siamo diventati amici» racconta Stefano. «Anche io ho iniziato a fotografar­e come terapia» prosegue Michele. «Ho cresciuto due figli da solo e ogni giorno mi obbligavo a uscire di casa a respirare. Due ore tutte per me. Invece di andare al cinema o uscire coi miei amici, mettevo la macchina al collo e passeggiav­o. Per questo mi definisco un fotografo da passeggio. Negli anni Ottanta scattavo i miei figli per sfizio, poi ho iniziato a farlo seriamente. A un certo punto, però, ho dovuto scegliere: o la famiglia o la fotografia. Ho scelto la prima, e non ho scattato per 15 anni. Ho ripreso solamente nel 2007 e da allora non ho più smesso».

Michele ha vissuto sulla sua pelle il passaggio tra pellicola e digitale. «Già il fatto di vedere all’istante la foto appena fatta, piuttosto che aspettare lo sviluppo, è una differenza abissale. Un conto è scattare la foto e svilupparl­a, per poi magari dire: bella cagata. Un altro è farne cento di fila, a raffica. Ci credo che così esce “la” foto. Con la pellicola devi essere un cecchino». Anche Stefano è d’accor

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