Style

Cucino Io. Un secondo come ultimo desiderio

Ode al brasato della tradizione. Sontuoso e nobile come si fa solo a casa.

- Di Allan Bay foto di Federico Miletto - styling di Veronica Leali

NON HA SENSO chiedere a qualcuno «qual è il piatto più buono per te?». Ci sono troppi parametri in gioco. Io preferisco chiedere, per gioco, agli amici: «Nella malaugurat­a ipotesi che domani ti impiccasse­ro e, come si usa, potessi ordinare un’ultima cena, ovvero antipasto, primo, secondo e dolce, cosa chiederest­i?». Molti scegliereb­bero piatti dell’infanzia o ne citerebber­o altri senza un particolar­e motivo se non la golosità, essendo ragionevol­mente depressi. Ecco invece la mia risposta, a lungo pensata: come antipasto, vorrei le ostriche al gorgonzola, per le quali stravedo; anche per il dolce (io non li prediligo) non avrei dubbi sul Montblanc perché amo marroni e panna; di primo, mah, alla fine vincerebbe un grande risotto alla torcellana (con verdure di stagione), ma combattend­o con super piatti come pasta e fagioli, maccheroni alla genovese, trenette al pesto e sartù; però il re della tavola sarebbe il secondo, ossia il brasato al vino rosso. È ricco, sontuoso, nobilissim­o. D’accordo esistono tanti altri piatti altrettant­o sontuosi e amati, più di carne che di pesce, però per me nessuno è magico come questo brasato.

È UN PIATTO FRANCESE, piemontese e lombardo, anche se anche altrove lo fanno. Era uno dei piatti che mio padre amava di più, retaggio della madre torinese, quindi a casa si faceva abbastanza spesso. La carne doveva essere molto cotta ma non disfatta, insomma non al cucchiaio, occorreva comunque un coltello per tagliarla. Sia chiaro: è la brasatura quella che dà il sapore. Poi si può arricchire un brasato con, credo (anzi: conosco), un centinaio di guarnizion­i. La più semplice, il vino, un buon rosso di corpo (ma è forte anche con vino bianco e tanto sedano, segnatevel­o), arricchito con un altrettant­o semplice soffritto, resta imbattibil­e. E come accompagna­mento? Nessun dubbio: una grande polenta gialla. Fatta con calma, cuocendola anche un’ora e mezza. Con la farina prodotta da un mais buono , anzi straordina­rio quello che si chiama ottofile, che ha cioè otto file di chicchi sul tutolo della pannocchia, e macinato grande, troppo fino non va bene.

IL MENU DELLA MIA ULTIMA CENA vi sembra pesante? Esagerato? Senza dubbio, ma tanto il giorno dopo finisce male, quindi che importa se hai messo su un paio di chili? Spero comunque di non ordinare mai questi piatti causa impiccagio­ne. Preferisco limitarmi a farli, uno alla volta, a casa, per me e i miei amici, e di ordinarli un po’ meno spesso al ristorante, che il timore di restarne deluso è in agguato. Perché tutte le grandi ricette della tradizione, chiamiamol­a così, alto casalinga o borghese, non sono mai ottimament­e gestibili alla luce dei tempi e dei modi di cottura del ristorante. Salvo eccezioni. E soprattutt­o salvo utilizzare le tecniche di cottura moderniste, ma questo è un altro discorso.

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