Opera. All’alba piangerò (d’amor)
Ovvero: passione, amore e vendetta. Il melodramma è la vera musica popolare italiana, una colonna sonora che dura da oltre due secoli e che continua a riempire i teatri lirici della penisola. Con Giuseppe Verdi nella parte di superstar
NON È STRANO che il melodramma sia la colonna sonora dell’italianità perché da secoli lungo la penisola sono sempre state tante le donne che hanno dovuto invocare «Ernani involami all’aborrito amplesso» (Ernani, Giuseppe Verdi) ogni volta che i doveri coniugali contrastavano con i sentimenti. E se restiamo sempre con Verdi, proprio perché il dileggio del tradito è uno sport nazionale chiunque ha intonato almeno una volta «in testa che avete signor di Ceprano?» (Rigoletto). Come nei cori da osteria, storpiando quel difficile «ond’ardo» del libretto, molti hanno urlato «ah l’amore, l’amore è un dardo» (Il Trovatore), per non parlare dei «Libiamo!» (La Traviata )edei «pace mio Dio!» (La forza del destino) cantati ai matrimoni e ai funerali.
Tra melodia e assonanza, poesia e prosa, cultura e saggezza popolare si snoda il melodramma, genere efficace di narrazione, «dramma interamente cantato con accompagnamento strumentale» che narra amori e tradimenti di eroi popolari e che dai palchi delle fiere paesane si è spostato sui palcoscenici dei Teatri lirici della penisola. Dove trionfa. Ecco la vera tradizione musicale italiana,
quella che nell’Ottocento ha unificato il Paese inglobando la melodia napoletana, lo stornello romano e le sonorità distese dei cortili padani. Dal Nord al Sud, legame culturale fatto di romanze urlate, di sinfonie fischiettate e di cori stonati ma rincuorati dal pathos eroico delle imprese amorose.
Così oggi i palcoscenici del Teatro alla Scala di Milano come quelli dell’Opera di Roma, del Comunale di Bologna, del San Carlo di Napoli e del Regio di Parma sono ancora affollati dai personaggi che cantano le arie care perché popolari: Gilda (Rigoletto) intona ancora «caro nome tua sarò» per una promessa fatta «tutte le sere al tempio» per sentirsi ripetere dal Duca di Mantova che «questa o quella per me pari sono» perché «la donna è mobile qual piuma al vento», come Eleonora (Il trovatore) spasima per quel Manrico che si scalda solo se sente il calore della battaglia e corre a spegnere «di quella pira l’orrendo foco» per poi scoprire che tanto ardore protettivo è dedicato, come fa ogni maschio italiano, alla madre «abbietta zingara» Azucena. Eppure, toltasi il velo punitivo del convento, quella stessa Eleonora è pronta a pietire a un incredulo Conte di Luna «svenami, ti bevi il sangue mio, calpesta il mio cadavere ma salva il Trovatore». Eroine sfortunate sempre in perenne compagnia con Violetta (La traviata) che non è mai stanca di sgolarsi con «Amami Alfredo», invocazione che suona come introduzione alle perdite di sensi di «Edgardo io ti son resa» declamato da Lucia (Lucia di Lammermoor, Gaetano Donizetti) in camicia da notte macchiata di rosso, alla poetica «casta diva» di Norma (Norma, Vincenzo Bellini) prima di sentirsi rispondere, a turno, dall’ingrato Alfredo «quella donna pagata io l’ho», dal superficiale Edgardo «ingrata donna» e dal fedifrago Pollione che vuole salvare l’amante Adalgisa «ti prendi la mia vita, ma di lei pietà».
Quanta musica, quante parole. E Verdi è la superstar con le arie più popolari canticchiate ovunque e ad esempio il coro del Nabucco lo si canta anche senza sapere che i protagonisti sono gli ebrei in fuga dall’Egitto, tanto si sa che è patriottico e «Verdi» è pur sempre l’acronimo di Vittorio Emanuele Re d’Italia, slogan dell’eroico Risorgimento. Ma anche il bergamasco Gaetano Donizetti ha il suo perché che va oltre l’infelice di Lammermoor e arriva fino a Paolina martire nelle catacombe romane del Poliuto. E che dire del catanese Vincenzo Bellini che con Il pirata ha regalato al popolo cantore la scena più splatter del teatro come neanche Quentin Tarantino avrebbe potuto immaginare:
«là vedete il palco funesto (…) Al guardo mi cela la barbara scure... Ma il sangue già gronda; ma tutta m’innonda...» canta Imogene mentre assiste, nella trance del sogno, alla decapitazione dell’amato amante.
La situazione non cambia quando si passa al Novecento. Ad esempio, La Scala di Milano il 7 dicembre inaugura la stagione con Tosca (che va in scena anche a Roma il 12 dicembre) di Giacomo Puccini, autore raffinato che riaccende la fiamma del melodramma in chiave maschilista. E così, con «vissi d’arte, vissi d’amore» di Flora Tosca arriva anche la perfida principessa Turandot che prima taglia le teste dei pretendenti ingannandoli con indovinelli irrisolvibili, «gli enigmi sono tre, la morte una!», e poi si arrende alle pretese amorose di uno sguaiato e supponente principe Calaf che per una notte intera urla «tramontate stelle, all’alba vincerò». Così, melodrammaticamente all’italiana.