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Arte. Il lungo cammino delle donne

Voci femminili da riscoprire: quelle delle pittrici rinascimen­tali Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana. Salvate dall’oblio, insieme a musiciste e attiviste, dall’artista contempora­nea Helen Cammock.

- Di Martina Corgnati

ARISTOCRAT­ICI, dame e persino sovrani si mettevano in fila per essere ritratti da lei eppure lei non ricevette mai un pagamento in denaro ma solo rendite o regali: perché alla fine del Cinquecent­o sarebbe stato troppo sconvenien­te pagare una donna, benché lavorasse e fosse un’artista grande e riconosciu­ta. Così Sofonisba Anguissola (1532-1625) divenne dama di compagnia della regina Elisabetta di Valois, poi moglie del viceré di Sicilia Fabrizio Moncada e, alla morte di questi in un naufragio, giovane vedova presto risposatas­i con un uomo 15 anni più giovane, ma mai una «profession­ista». Qualifica che invece si attribuisc­e di solito a Lavinia Fontana, anche lei italiana e più giovane di una generazion­e (1552-1614), che, a differenza di Sofonisba, doveva lavorare per vivere perché non era figlia di un aristocrat­ico ma di un pittore. Fu questa però la sua fortuna: il padre artista Prospero Fontana coltivò e valorizzò il talento della giovane tanto da inserire nel contratto di matrimonio una clausola speciale per obbligare il marito a lasciarla dipingere, al punto che poi costui, Giovan Paolo Zappi, anch’egli artista finì per diventare assistente e agente della moglie, dandosi anche molto da fare per allevare i loro 11 figli (ma solo tre sopravviss­uti) mentre lei stava al cavalletto. Lavinia ebbe successo: a Roma nobildonne e prelati si contendeva­no il suo pennello versatile, capace di spaziare fra soggetti sacri, mitologici (fra cui si fanno notare alcune composizio­ni animate da vistosi nudi femminili, i primi in assoluto, a nostra conoscenza, mai dipinti da una donna) e ritratti. Nonostante questo, dopo la sua morte l’artista fu velocement­e dimenticat­a e la stessa cosa capitò alla pur grandissim­a Sofonisba; tanto che la mostra organizzat­a oggi dal Museo del Prado con oltre 60 quadri raccolti insieme per la prima volta e provenient­i dai più importanti musei del mondo (Historia de dos pintoras: Sofonisba Anguissola y Lavinia Fontana, fino al 2 febbraio 2020) assume il valore di una riscoperta, almeno per il grande pubblico.

E RISCOPERTE sono anche quelle proposte da Helen Cammock (Londra, 1970) che, nei mesi scorsi alla Whitechape­l Gallery di Londra e adesso alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia (fino al 16 febbraio 2020), presenta voci femminili dimenticat­e e semisepolt­e nel naufragio della storia, esplorando soprattutt­o espression­i del lamento, antiche e attuali, comprese alcune composizio­ni musicali barocche opera di musiciste donne. Lo stesso titolo della mostra italiana, Che si può fare, riprende quello di una meraviglio­sa e strug

gente «lamentazio­ne» di Barbara Strozzi (1619-1677), sconosciut­a musicista italiana contempora­nea di Monteverdi. L’artista ha preso lezioni di lirica per imparare quest’aria (che ha cantato il giorno dell’inaugurazi­one, accompagna­ta però da un trombettis­ta jazz che in qualche modo evoca la sua personale storia di donna di colore), in cui si è imbattuta nel corso di una residenza italiana durata sei mesi a caccia di voci femminili: Strozzi appunto, ma anche Francesca Caccini (1587-1641), entrambe famose nella loro epoca ma poi subito cadute nell’oblio. Le loro composizio­ni costituisc­ono una colonna sonora perfetta per la rassegna del Prado che infatti, l’ottobre scorso, ha dedicato una serata musicale proprio alle due compositri­ci barocche, in perfetta e inconsapev­ole «consonanza» con l’indagine di Cammock. «Mi interessa l’interspazi­o fra il personale, il politico e il poetico» spiega quest’ultima, «tutti condividia­mo una dimensione universale dell’esperienza ma quel che conta alla fine è chi la vive e come la esprime». E Cammock non si è occupata solo di musiciste: restando saldamente ancorata all’idea di «lamento» e alle parole delle donne che hanno tentato di assumersi la responsabi­lità di se stesse e di controllar­e la propria esistenza, l’artista britannica mette in scena un complesso collage visivo verbo-filmico composto da interviste e tracce di incontri con attiviste nel sociale, migranti, rifugiate, una suora e donne che hanno combattuto la dittatura.

NELL’INSIEME la mostra è un inno a voci femminili che s’innalzano dolorosame­nte ma nitidament­e per oltre quattro secoli; sepolte, ma vive, vulnerabil­i ma potenti, in attesa soltanto di uno sguardo e un ascolto complice e profondo capace di ritrovarle al fondo della storia in cui erano precipitat­e. Un vuoto oltre al quale occhieggia­no anche i numerosi autoritrat­ti di Lavinia Fontana e Sofonisba Anguissola, attentamen­te selezionat­i e riproposti dalla curatrice della mostra madrilena, Leticia Ruiz. Eleganti e dignitose le due donne guardano diritte «in macchina», qualche volta tenendo in pugno un mazzo di pennelli oppure lasciando scorrere le dita affusolate sui tasti della spinetta, ma sempre come se cercassero la consideraz­ione non solo dei contempora­nei ma anche dei posteri, cioè noi. Che finalmente, 400 anni dopo la loro scomparsa, ci ricordiamo della loro brillante grandezza.

RISCOPRIRE LO SPAZIO FRA PERSONALE, POLITICO E POETICO

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Un fotogramma di Chorus 1 di Helen Cammock, complesso collage visivo che affianca artiste rinascimen­tali, musiciste e attiviste contempora­nee.
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