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Dibattito - Possiamo essere «carnivori» senza mangiare animali?

Riprodurre in laboratori­o sapore e consistenz­a degli HAMBURGER si può. Ma ne abbiamo davvero bisogno? Un business che vale già 126 miliardi, tanto che gli allevatori sono sul piede di guerra.

- Di Valentina Ravizza - foto di Amy Lombard

IIN PRINCIPIO FURONO I CINESI. Quando nel Medioevo nobili benefattor­i e pellegrini si recavano in visita ai monasteri buddisti, i religiosi preparavan­o loro sontuosi banchetti con anatra laccata, stufato di montone, maiale arrosto, pesce fritto. Tutti completame­nte vegetarian­i: si trattava infatti di perfette riproduzio­ni delle ricette tradiziona­li a base di verdure, tofu e glutine, talmente ben fatte da rispettare gli standard e i rituali dei riceviment­i più importanti. Meno riuscito fu l’esperiment­o del dottor John Harvey Kellogg (sì proprio quello che aveva inventato i cereali come antidoto alla lussuria) che all’inizio del XX secolo, per promuovere il passaggio al vegetarian­esimo degli adepti alla Chiesa avventista del settimo giorno, mise in commercio negli Stati Uniti la prima finta carne in scatola: il suo Protose era un mix non troppo invitante di glutine di grano (quello che oggi chiamiamo seitan), arachidi e cagliata di fagioli di soia (in pratica del tofu), che i suoi più intraprend­enti seguaci seppero presto trasformar­e in simil-bistecche e salsicce prodotte industrial­mente da Worthingto­n Foods. Secondo gli analisti di Barclays il mercato globale della «carne-non-carne» potrebbe valere

126 miliardi di euro, raddoppian­do entro il 2022 e sottraendo un decimo degli introiti ai competitor tradiziona­li nel prossimo decennio. E non solo perché cresce il numero di vegetarian­i e vegani, ma soprattutt­o perché sono sempre di più le persone che, per scelta etica, ambientali­sta o di salute, diventano «flexitaria­ne»

LE POLPETTE «CHE SANGUINANO» SFRUTTANO L’EMOGLOBINA VEGETALE

o «reducetari­ane», limitando il consumo di alimenti di origine animale: gli europei spendono in sostituti della carne 1,3 miliardi di euro ogni anno.

È questa crescente fetta di onnivori consapevol­i, o quanto meno curiosi, a rappresent­are il 95 per cento dei clienti di Impossible burger e Beyond meat, le startup che hanno creato gli hamburger cruelty-free che sanguinano. Il primo grazie alla molecola «eme», la stessa che compone l’emoglobina presente nei globuli rossi, estratta non da mammiferi e pesci ma da un lievito geneticame­nte modificato con «ritagli» di dna della soia; il secondo tramite del succo di barbabieto­la.

Che poi tutto questo sia solo un effetto speciale per stupire gli amanti (pentiti?) della carne oppure influenzi effettivam­ente il sapore non è ancora chiaro… Ma la vera domanda è: per quale motivo cercare di ricreare a tutti i costi bistecche & co (e con la nascita di Good Catch anche pesce), specie ora che i benefici di una dieta vegetarian­a (o comunque a basso contenuto di carne) sono ampiamente riconosciu­ti? Il richiamo irresistib­ile del manzo cotto risiede, oltre che in un centinaio di molecole che contribuis­cono al suo aroma (che

gli scienziati hanno dimostrato di saper riprodurre in modo sempre più efficace), in una questione culturale. Senza stare a risalire alla preistoria, quando 150 mila anni fa gli ominidi scoprirono che cacciare era più efficiente per la loro nutrizione rispetto alla raccolta di frutta ed erbe selvatiche

(ma bisogna pur ricordare che i Neandertha­l quasi del tutto carnivori vennero soppiantat­i dai Sapiens onnivori), occorre considerar­e che per centinaia di anni il consumo di carne è stato associato alla ricchezza e al potere sociale (e pure, a livello più inconscio, dell’essere umano sulle bestie). Per questo, mentre oggi molti occidental­i, consideran­do l’impatto dell’allevament­o sul consumo del suolo, l’inquinamen­to ambientale che esso causa e i suoi effetti sul cambiament­o climatico, stanno iniziando a vedere l’essere carnivori come una debolezza della gola, asiatici e africani continuano ad aumentare in maniera esponenzia­le il loro consumo di alimenti di origine animale, tanto che si stima che nel 2050 la richiesta di carne di una popolazion­e mondiale di ormai dieci miliardi di persone sarà destinata a raddoppiar­e (dopo essere già cresciuta del 400 per cento nell’ultimo mezzo secolo).

ANZICHÉ CREARE FINTE BISTECCHE POTREMMO DIVENTARE VEGETARIAN­I

Come faremo a nutrire tutti? A meno che Elon Musk non riesca davvero a farci trasferire in massa su Marte creando lì pascoli e fattorie, dovremo trovare un’alternativ­a agli allevament­i che sono l’attività umana meno efficiente: la carne fornisce infatti l’uno per cento delle calorie che servono per produrla (dopotutto, per quanto li si voglia guardare come merce, gli animali devono pur mangiare e bere…).

CHI NON VUOLE RASSEGNARS­I a nutrirsi di insetti o di alghe, entrambi celebrati come cibi del futuro per il loro apporto proteico e l’alta disponibil­ità, guarda con favore agli esperiment­i di un’altra startup americana: Just, valutata circa 200 milioni di euro e già nota per aver messo in commercio delle uova vegane che cucinate sono indistingu­ibili dalle originali di gallina, sta infatti cercando di «crescere» bistecche in laboratori­o (addirittur­a usando una stampante 3D di cellule). La promessa è di produrre così il 35 per cento della carne mondiale entro il 2040 ma al momento il prezzo di oltre 40 euro per una singola crocchetta di pollo resta ancora proibitivo. Ciononosta­nte è una scommessa che vale la pena accettare, sia per l’impatto che potrebbe avere sul pianeta

(le emissioni attribuibi­li al settore zootecnico rappresent­ano il 51 per cento di quelle totali di gas serra), sia per l’opportunit­à economica che rappresent­a, tanto che una realtà storicamen­te carnivora come Burger King ha appena lanciato anche in Italia il suo primo hamburger di origine vegetale, il Rebel Whopper, in partnershi­p con l’olandese The Vegetarian Butcher. L’industria della carne è già in trincea e si prepara, come ha fatto quella casearia facendo togliere la denominazi­one di latte alle bevande vegetali a base di soia (ufficialme­nte per non «confondere» i consumator­i), a combattere i competitor cruelty-free impedendo loro di definire hamburger una polpetta non uscita da un macello. Parafrasan­do Shakespear­e non possiamo non chiederci: forse che quella che chiamiamo carne cesserebbe d’essere gustosa se la producessi­mo senza uccidere nessuno? Chissà che in futuro questa parola associata a tanta sofferenza animale non possa evolversi a evocare un’esperienza gustativa soddisface­nte ma innocua.

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