People - Ayoub corre per diventare italiano
testo e foto di Maurizio Fiorino
Ayoub Idam, 19 anni, è campione italiano Juniores nella dieci chilometri.
EPENSARE CHE a prima vista – magro com’è, e con quell’aria gentile e all’apparenza docile che a tutto fa pensare fuorché a un ragazzo che, quando corre, fa alzare il fumo da terra – nessuno avrebbe scommesso mezzo centesimo su di lui. Quando lo incontro a Crotone, Ayoub Idam è di ritorno da Canelli, nell’astigiano, dove ha vinto la dieci chilometri di corsa su strada guadagnandosi il terzo titolo di campione d’Italia: aveva già trionfato tra gli Allievi nei tre mila metri nel 2017, poi nella corsa campestre Under 20 nel 2018 e, infine, la dieci chilometri a inizio settembre con gli Juniores. Eppure lui, che a luglio ha compiuto 19 anni, a correre così tanto da diventare campione non ci aveva mai pensato. «A correre in realtà sì» ammette. «Sono cresciuto a Khouribga, in Marocco, anche se culturalmente sono italiano al 100 per cento. In Calabria ho fatto l’ultimo anno delle elementari, le medie e le superiori. Da piccoli giocavamo tutti insieme per strada, senza obiettivi. Posso dire che la corsa me la sono messa nel sangue lì».
Della sua infanzia, «difficile soprattutto per l’atmosfera in cui vivevo», ricorda con emozione sua mamma: «È lei che mi ha insegnato a non mollare». Arrivano in Calabria a dieci anni, lui, sua sorella gemella e sua madre, con un sogno nel cassetto. «Volevo fare il calciatore, come tutti. Mi alzavo da letto e non pensavo ad altro che al calcio». Gli inizi non sono dei più facili: l’integrazione, lingua e cultura diverse, i disagi legati al razzismo «che se incontri gente di poca cultura esiste».
POI LA MAMMA lo iscrive a una scuola di calcetto. «Ci andavo tutti i giorni, ero felice. Alla fine degli allenamenti mettevo lo zainetto in spalla e correvo verso casa. Finché, dopo qualche settimana, ho notato che una macchina mi seguiva. Dapprima sporadicamente, poi con più assiduità. Una cosa inquietante». E qui entra in scena colui che da quel momento si sostituisce, quasi, a un padre. Si chiama Scipione Pacenza, un preparatore atletico piuttosto famoso in città.
«Lo seguivi?» domando allora a Scipione. «Tutti i pomeriggi, da quando l’ho notato, cioè da subito. Mi ha impressionato per il suo fisico longilineo. Guardalo bene: ha una corporatura keniana. Era sprecato a giocare a calcio» risponde lui. Ayoub sorride. «A calcio giocavo malissimo: ho i piedi storti. Quando calciavo, la palla non arrivava neanche vicino la porta. E comunque a un certo punto mi sono fermato e ho affrontato quell’uomo che mi seguiva in macchina».
Pacenza annuisce: «Era il settembre del 2011. Mi sono presentato e gli ho detto: “Vieni a correre con me che ti faccio diventare un campione”». «E io mi sono fidato subito» gli fa eco il suo pupillo che, il giorno dopo, ha lasciato il calcio e ha iniziato a correre.
«ALL’INIZIO abbiamo corso piano piano, senza spingere» racconta Pacenza. «Ho capito subito che in quel momento non dovevo forzarlo. Anzi, un po’ sminuivo le sue capacità: volevo vedere fin dove era in grado di arrivare». I primi risultati si sono iniziati a vedere dopo i primi due anni. Ayoub era abituato al calcetto, alla corsa libera per strada, senza tecnica. «La corsa è individuale e non di squadra. All’inizio, se non ci sei abituato, ci soffri, ma poi ti ritrovi con te stesso ed è bellissimo» spiega il giovane atleta.
«Dopo un anno era già tra i dieci migliori d’Italia» continua Scipione, «ma non era un fenomeno. Io ho solo visto il terreno fertile. In 12 mesi di allenamento è arrivato terzo al Campionato italiano su strada, poi
«VIENI A CORRERE CON ME E DIVENTI UN CAMPIONE». LA COLLABORAZIONE TRA AYOUB E IL SUO COACH È INIZIATA COSÌ
tra i primi dieci al campionato su pista dello stesso anno, ma a 30 secondi di distanza dai primi. Tre mesi dopo ha battuto tutti quelli che lo avevano preceduto. Da lì è iniziata la sua salita, fino a vincere i Campionati italiani su pista».
A un certo punto Ayoub viene notato da Maurizio Leone, il direttore tecnico della società di atletica leggera Cosenza K42, con cui oggi gareggia. «Se fossi stato cittadino italiano avrei potuto fare molto di più» dice. «La cosa a cui mi è dispiaciuto rinunciare sono state le Olimpiadi giovanili di Buenos Aires. Arrivare primo e non poter gareggiare con la maglia che vorrei indossare, quella azzurra, mi fa rimanere male». Questo perché ogni atleta, per poter partecipare alle competizioni fra squadre nazionali, deve possedere la cittadinanza del Paese che rappresenta.
Per Pacenza «l’iter burocratico per la cittadinanza è troppo lungo e il risultato è che Ayoub, per l’Italia, c’è e non c’è. Fa i campionati ma ha dovuto rinunciare ai Mondiali e, appunto, alle Olimpiadi giovanili». E dunque? «Più titoli vinco, più sarò notato e più facile sarà ottenere la cittadinanza» risponde il ragazzo.
L’ULTIMO TITOLO, dice il coach, è stato quello decisivo per affermarsi. «Quest’anno ho adottato una nuova strategia con lui. Qui a Crotone gli atleti si allenano fino a giugno perché poi vanno tutti a mare. Ayoub l’ho mandato a Cosenza, a Plataci e poi a Sibari». Si allenano insieme quasi tutto l’anno, anche a Natale. «Soprattutto il giorno di Natale e Capodanno» sottolinea Pacenza che, quando parla del suo atleta, è un fiume in piena. «Non esistono feste. Anzi, in quei giorni è ancora meglio perché siamo soli io e lui. Il suo segreto è proprio questo: non smette mai di allenarsi. In agosto, per esempio, ha fatto tre gare: ha vinto gli NB Games, dove si è classificato primo sui tre mila metri facendo una prestazione più che discreta che, in realtà, ci serviva ai cinque mila della settimana dopo, a Brindisi, dove si è confermato primo con 14 minuti e 30 secondi, miglior prestazione italiana della sua categoria. A distanza di sette giorni è diventato campione nazionale. Questa strategia sta funzionando».
I SUOI OBIETTIVI, dice, sono due: correre e ottenere la cittadinanza. «La corsa mi ha tolto tempo per lo studio. Non che vada così male: frequento l’Istituto Barlacchi di Crotone, con indirizzo socio-sanitario, e ho comunque la media del sette e dell’otto. Ma il genio di casa è mia sorella». Ci sono alti e bassi, ovviamente. «All’inizio ero debole e non riuscivo neanche a stare dietro ai miei compagni di squadra» ricorda. «Poi, di nascosto, facevo due allenamenti al giorno. Non riuscivo a concepire l’idea di correre meno degli altri. Alla fine quasi svenivo dalla stanchezza: ma ce l’ho fatta».
«Un giorno, di sera, mi chiama e mi fa: voglio abbandonare» racconta il suo coach. «In pratica c’era un compagno di corsa che lo prendeva in giro. Gli ho risposto: resisti, un giorno lo umilieremo in pista». Pacenza sorride: «Adesso quel ragazzo non corre più».