(perché in tempi d’incertezza non osiamo guardare al futuro)
Così un fiume di denaro bloccato nei conti deposito non riesce a trovare sbocchi utili allo sviluppo
L’incertezza è la parola chiave di questi ultimi anni. Incertezza accresciuta dai comportamenti dei governi e dei leader politici. Segnatamente da chi, come Donald Trump, nel caso specifico vuole ridisegnare gli equilibri mondiali, geopolitici ed economici a colpi di dazi e minacce. Non che i regimi asiatici siano da meno: approfittando dell’apertura caratteristica delle democrazie, hanno tentato più volte di alterare in modo surrettizio i rapporti di forza. Le statistiche dell’Ocse (Organizzazione dei Paesi più sviluppati) ci raccontano di un mondo e di una ricchezza liquida che è pari a sei volte il prodotto lordo interno globale. Di questa almeno un terzo è pronta per essere investita. Se poi pensiamo che quasi 13 trilioni (13 mila miliardi di euro) sono investiti a tassi negativi, cioè si paga per poter depositare i soldi in titoli di Stato di Paesi affidabili (o comunque in titoli ritenuti tali), si capisce quanto l’incertezza pesi e renda particolare l’attuale situazione.
È quella che John Maynard Keynes negli anni Trenta chiamò trappola della liquidità. Nonostante le banche centrali usino tutti gli strumenti di politica monetaria come il taglio del costo del denaro – vale a dire che paghiamo bassissimi tassi di interesse sui prestiti – le persone riducono più che aumentare i consumi, le imprese abbassano invece di incrementare gli investimenti. Che questa sia la condizione di noi risparmiatori è abbastanza chiaro. Venendo meno la fiducia in quello che potrà accadere alle economie nazionali e mondiali tendiamo a spendere meno. E le imprese a chiedere meno finanziamenti per investire. A novembre 2019, proprio i finanziamenti alle aziende, secondo i dati dell’Abi (Associazione bancaria), sono diminuiti dell’1,9 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. Ma a preoccupare ancor di più è il fatto che nel terzo trimestre dello scorso anno sono aumentati del 6,2 per cento gli imprenditori che pur avendo società in attivo hanno deciso di liquidarle. E così a fronte di aziende produttive si sono ritrovati a gestire appunto denaro.
Un fiume di soldi che non trova sbocchi utili allo sviluppo. Lo dimostra il boom relativo dei conti deposito di molte banche, soprattutto di quelle cosiddette alternative, quelle senza filiali, gli istituti online. Siamo disposti a tenere lì i nostri soldi ottenendo basse remunerazioni pur di considerare quel denaro «liquido», pronto a essere usato in caso di emergenza. È per questo che sempre Keynes nelle sue lezioni sottolineava quanto la fiducia fosse molto più importante delle mosse delle banche centrali. La fiducia però non possiamo darcela da soli. Possiamo provarci ma affinché divenga un sentimento diffuso dovrebbero essere le classi dirigenti soprattutto politiche a farlo, come spesso ha chiesto Mario Draghi nelle sue ultime esternazioni da presidente della banca centrale europea.
Possiamo però evitare di aderire più o meno coscientemente alle offerte di quanti ci offrono rendimenti apparentemente elevati sui conti deposito, anche dell’uno o due per cento per sei mesi o un anno. Basterebbe dirsi, al momento di farlo, che sarà difficile ottenere alti interessi se per titoli trentennali lo Stato italiano è disposto a concedere tassi di meno del 2,5 per cento. Ma chi si è fatto davvero i conti sa che quell’1 per cento lordo di interessi è poco più dello 0,50 per cento. E pure per un periodo limitato, mentre a lungo termine l’un per cento si ridurrà a meno di un quinto. Ma la passione per la liquidità degli italiani (e non solo) non diminuisce, come dimostrano i dati Abi che indicano, a dicembre, 1.581 miliardi di depositi sui conti correnti degli italiani. Soldi che consideriamo come una sorta di paracadute. Ma paracadute per paracadute, non sarebbe meglio investire su noi stessi in un fondo integrativo per pensioni che sappiamo saranno sempre più magre?