La diversità è come la seta
La diversità è come la seta: ammalia, avvolge, scivola via e poi ritorna.
Su uno degli snodi della Via della Seta, a Teheran, tre anni fa, conosco Nazanin durante una missione di Sistema Moda Italia nell’ambito della collaborazione con l’ufficio locale dell’agenzia ICE. È con lei che riprendo le fila di un confronto lasciato sospeso, quello che nasce tra viaggiatori, dove le diversità sono occasione di incontro o di scontro, di inclusione o di esclusione. Sì perché Nazanin è una viaggiatrice; di quelle che iniziano presto, da bambine; che ricevono un imprinting unico che ti apre al mondo ed al confronto con la diversità umana e culturale.
Più riascolto l’intervista che abbiamo fatto e più comprendo che la diversità è prima di tutto una sfida per noi stessi: le paure, la solitudine, i sogni, l’entusiasmo. Percepisco in sottofondo un sottile senso di autocritica, come se la diversità nascesse prima di tutto dentro di noi; ma non c’è condanna, anzi c’è indulgenza, c’è benevola ricerca di comprensione: si sente nel tono elegante della voce; si percepisce dalla scelta attenta dei vocaboli italiani; si fissa nel racconto degli episodi e nei ricordi.
Storia No. 1
L’intero nostro dialogo si sviluppa su due racconti paralleli: la prima storia è quella di Nazanin, della sua famiglia e delle scelte di vita. Durante gli anni della formazione scolastica, tutta la famiglia segue i trasferimenti per lavoro del padre, alternando periodi all’estero ad altrettanti rientri in Iran. Prima tappa fu il Giappone “Ricordo chiaramente la grande libertà di esprimerti che ti davano all’asilo in Giappone. Facevamo molte esperienze anche sportive; un continuo di nuove occasioni, di possibilità di sperimentare per imparare a conoscerti, per trovare i tuoi punti di forza. Seppur bambina piccola, nel piacere del divertimento sentivo di avere la possibilità di scegliere la mia strada”. Dopo alcuni anni una nuova esperienza all’estero, destinazione Udine: in questa città dell’estremo Nord nasce la predilezione che Nazanin ha per l’italia. “È stata un’esperienza bella e unica, perché lì è iniziato un percorso, con lo studio dell’italiano, che mi ha permesso di rapportarmi e di conoscere un’altra cultura. Udine ha un posto speciale nella mia vita e sono grata a quel periodo e a quella città perché se oggi ho un lavoro, un ruolo, una mia indipendenza lo devo a essi”. Nazanin mi racconta di avere 2 lauree. La prima, conseguita in Iran, è in Ingegneria delle telecomunicazioni. “Non mi piaceva, era una cosa fatta per forza - sorride - Devi sapere che in Iran devi fare un esame per l’università; in base al risultato di questo esame sono loro che ti assegnano la facoltà”.
Il rientro in Patria e il confronto con quello che avevi lasciato.
E così nel 2006 assieme alla sorella più giovane torna in Italia e s’iscrive al Politecnico di Milano al corso di architettura. Nei cinque anni che seguono Nazanin sperimenta la diversità attraverso la difficoltà dell'integrazione che fa scattare il cortocircuito della paura di essere escluse. “Io e mia sorella avevamo già pianificato che appena presa la laurea saremmo rientrate in Iran; pensavamo che sarebbe stato più facile inserirsi nel mondo del lavoro iraniano piuttosto che in Italia: sentivamo sempre in fondo il nostro cuore che non avremmo potuto riuscirci in Italia. Era una sensazione che ci aveva accompagnato per tutti i cinque anni d'università, specialmente i primi due a Milano prima di trasferirci a Como; ma ciò era dovuto anche all’atmosfera che respiravamo di un atteggiamento più duro da parte di alcuni professori in quanto straniere; dell’essere escluse o di escluderci noi stessi da gruppi di amicizie con altri studenti in quanto ragazze, il tutto amplificato dall'avere 4-5 anni in più rispetto alla media e pertanto con un altro mondo di riferimento”.
Viaggiare ti cambia, ma anche quello che lasci quando torni è diverso.
“Quando sono rientrata, dopo la laurea, quello che mi ha colpito molto è che anche l'iran era cambiato in quei 6 anni, soprattutto la gente: molto più attaccata alla superficialità, agli aspetti materiali. Ricordo che prima non era così. Nel 2011 Ahmadinejad aveva iniziato già il secondo mandato presidenziale, ma l’economia beneficiava ancora dei positivi effetti della presidenza precedente di Khatami, per cui la situazione era migliorata in maniera diffusa aumentando le possibilità di spesa dei singoli individui”. Inizia così un periodo non facile di reintegrazione ambientale e culturale: ”Era come sentirsi straniere a casa propria; nel luogo dove eri nata! Riprendere le relazioni con le persone è stato difficile, anche perché diversi vecchi amici erano nel frattempo emigrati”. “Con mia sorella decidemmo di aprire un piccolo studio di interior design e per 5 anni abbiamo operato come free-lance, in modo particolare per l’allestimento di negozi di abbigliamento, applicando gli insegnamenti appresi in Italia, ma soprattutto cercando di divulgare quella apertura mentale ed il modo di lavorare che ci aveva dato l’esperienza universitaria all’estero; ma in Iran era tutto diverso in termini di gusto, di pensiero e di interpretazione del design”.
L’alternativa del diverso.
"È stato uno scontro di pensiero tra la nostra visione, inevitabilmente contaminata dalla cultura europea e dal rigore delle forme, con quella iraniana dominate, improntata a un’ostentazione massiccia di materiali e ornamenti”. Nazanin e sua sorella sperimentano la delusione e l’esclusione, resa più dura dall’intransigenza di non cedere, di non adattarsi, di non negare la possibilità che esista una visione alternativa al pensiero mainstream. È il sogno che non muore; che riposa anche nella memoria storica e collettiva; che va di pari passo con il lento ma continuo percorso di riconoscimento dell’universo femminile, come ci racconta Nazanin.
Storia No. 2
La seconda storia parallela è quella dell’iran con le reminiscenze dell’eredità lasciata dallo Scià, l’avvicendarsi dei presidenti, le sanzioni economiche della comunità internazionale, che rendono difficile ciò che per noi della business community è dato per acquisito. “Oggi anche le cose che per voi sono semplici, qui sono difficili: dalla richiesta della licenza d’importazione sino al bonif ico bancario, attraverso le triangolazioni, possono passare mesi con un continuo via vai di richieste, moduli, autorizzazioni, dichiarazioni sull’utilizzatore finale e nel non impiego nell’arricchimento dell’uranio. Nell’ultimo anno e mezzo la situazione è molto peggiorata.
Da quando l’amministrazione Trump ha ripristinato e inasprito le sanzioni, il Rial è stato più volte svalutato per cui, da un lato, le aziende hanno difficoltà a investire e quando lo fanno si entra in un labirinto burocratico che rende tutto più difficile e lento; dall'altro l’isolamento dell’iran non ci permette di esportare il petrolio che è sempre stata la nostra primaria fonte di ricchezza. L’azienda per cui lavoro opera nel campo dell’importazione di macchinari e di materie prime per la lavorazione della pelle. Sono prodotti che non sono reperibili in loco, ma la nostra possibilità d’importazione è contingentata; moltiplicando questo per ogni settore si può immaginare quale sia l’impatto sull’intera economia della nazione”. È come se, di fatto, esistesse un Paese “diverso" che crea diversità nel Paese tra la gente e le classi sociali: “Da quando siete venuti in missione nel 2016, molte attività hanno chiuso; si respira un’atmosfera d’instabilità e incertezza; si è allargata la fascia di povertà; il costo della vita è triplicato e si vedono molti poveri per le strade, in un modo che prima non era mai stato“. È forse questa condizione di eterna sospensione, di attesa del giudizio, l’essenza stessa della diversità?