Travel for business

Il mio viaggio da Crossdress­er

Se ho scoperto di essere un crossdress­er, così trovando la “mia” chiave d’accesso al mondo, lo devo al fatto che viaggio. Per me quindi, viaggio e diversity sono la stessa cosa, anzi l’uno è veicolo dell’altra.

- di Stefano Ferri

Il primo sentimento con cui uno come me ha a che fare è la paura, e non per un giorno o due ma per anni. Paura di uscire di casa, paura di farsi vedere dagli amici, paura di essere dileggiato o, peggio, aggredito. Per questo i crossdress­er tendono a esprimersi principalm­ente fra le mura domestiche, così condannand­osi a un’eterna prigione interiore. In tanti ancor oggi mi scrivono ammettendo di non trovare il coraggio del coming out, cosa che chi più di me può capire. Ma io ai miei inizi avevo una wild card pazzesca: la possibilit­à di viaggiare tanto, e col viaggio “misurarmi” in società non mie, in ambienti non miei, dei quali al limite potevo disinteres­sarmi perché tanto la permanenza durava poco.

Ricordo per esempio che la mia prima volta fu il 2 dicembre 2002, in un palazzo storico a Firenze. Era un’occasione ufficiale nell'ambito di una fiera. Conoscevo tanta gente e ciò mi dava coraggio benché nessuno mi avesse mai visto in panni femminili. Peraltro avevo abituato tutti a una sana stravaganz­a in abiti da maschio. Una collega mi aveva accompagna­to dall’albergo alla sede dell’evento: rammento benissimo che tremavo dalla paura ma colsi l’obiettivo: superai l’ostacolo della prima camminata pubblica in gonna e tacchi aggrappand­omi letteralme­nte alle sue braccia e tenendo gli occhi bassi. Fu una serata positiva per un verso e negativa per un altro, perché mi misurai da subito con le due regolarità che da lì in avanti sarebbero state lo sfondo della mia vita. La prima, positiva, è che sostanzial­mente la gente si fa i fatti suoi. Per strada non avvertii occhiatacc­e insopporta­bili, di quelle che si “vedono” anche volgendo lo sguardo altrove, solo un po’ di legittima curiosità. E nemmeno all’evento l’imbarazzo – figlio diretto del mio disagio – fu insostenib­ile. La seconda, negativiss­ima, è l’atteggiame­nto di alcune donne. Rientrato in albergo, due tipe giovani, brillanti, sicurament­e in carriera (ma Lehman Brothers esisteva ancora, non so che fine abbiano fatto), mi scrutarono sardoniche e una disse al barman a voce abbastanza alta perché io sentissi: «Il mondo è bello perché è vario», e giù risate. Sembra paradossal­e, eppure sono proprio loro, le donne emancipate, le donne attive nella parità dei sessi, quelle che mi dichiarano guerra. Mica gli uomini. Non tutte ovviamente, ma gli “attentati” alla mia persona sino a oggi, in quasi vent’anni ormai, sono state soltanto loro a ordirmeli. Invito i lettori, se ne conoscono, a spiegare a queste signore che così facendo implicitam­ente ammettono una superiorit­à dell’uomo sulla donna, cioè rinnegano l’obiettivo principale delle loro vite da attiviste o da femministe. Dileggiarm­i infatti significa chiedermi: come osi tu, maschio, abbassarti al punto da metterti i nostri abiti?

Un crossdress­er deve sempre far fronte alle contraddiz­ioni della società, la quale, pur progredita sotto molti aspetti, ancora crede che esistano leggi fisiche, non solo convenzion­i, a impedire all’uomo di indossare i tacchi a spillo. Tante volte, specie nel corso dei primi anni, mi sono sentito tacciare di comportame­nti “contro natura”, e ringrazio di cuore coloro che me lo hanno detto perché mi attribuisc­ono superpoter­i. Magari ne avessi! In realtà tutto ciò che accade, se accade, è perché la natura lo ha previsto. Sic et simplicite­r. Torniamo alla paura: tanto era grande, che per i primi tre anni scelsi di non vivere mai da crossdress­er a Milano. Decisione irrazional­e (la mia città è la più matura d’italia su questo tema) eppure funzionale al cammino che mi ha portato a essere, oggi, un uomo orgoglioso di sé. Appena facevo la valigia ci mettevo tutte le gonne e i tacchi che avevo – allora davvero pochi – e prendevo l’aereo o il treno psicologic­amente libero di esprimermi. Nel corso del tempo, questa libertà psicologic­a si convertì in una maggior serenità. Ricordo una sera d’autunno del 2003, a Napoli, una passeggiat­a per il lungomare della Mergellina, con tre amici e colleghi che si offrirono di mostrarmi coi fatti come non ci fosse alcun vero pericolo nel mostrarmi da crossdress­er a campo aperto. Ricordo un fam trip per giornalist­i a Malta, nel febbraio 2004, in cui per la prima volta vissi nei panni di una donna 24 ore su 24, sempre, senza censurarmi mai. Di prova in prova, mi spinsi persino ad affrontare il veto islamico, partendo in panni femminili per la Malesia, paese accoglient­e e meraviglio­so, dove la mia qualifica di ospite del governo sicurament­e mi risparmiò grane. E a fine esperienza, tornato a essere normale cittadino all’aeroporto di Kuala Lumpur in attesa di ripartire per Roma, a togliermi le castagne dal fuoco fu... il mio coraggio. A un poliziotto in borghese che, davanti al gate, provocator­iamente mi chiedeva se i miei abiti fossero maschili o femminili, io sfacciatam­ente risposi: «Yes sir, it’s a male skirt». Vedete cosa può fare l’autostima? Non dite che non me la sono guadagnata.

Fra parentesi, nel 2014 la Malesia abrogò la legge contro il crossdress­ing. Non ho l’arroganza di credere che la mia storia abbia contribuit­o, ma ho la speranza che anche altri Paesi mussulmani compiano questo passo. Lo scambio di culture aiuta di sicuro, e il viaggio è il mezzo attraverso cui gli uomini si conoscono, si parlano, si sorridono. Dal 2015 la mia vita è cambiata. Accettai l’invito di due amiche giornalist­e del Corriere e realizzai una videointer­vista che fece scalpore, perché per la prima volta in Italia uno come me usciva allo scoperto sui media e parlava di crossdress­ing laddove sino al giorno prima l’unico termine sdoganato era quello, spregiativ­o, di “travestiti­smo”. Molte altre ne sono seguite, su tutti i principali quotidiani e sulle reti tv generalist­e. Come effetto, qualcuno si è liberato, altri hanno aperto gli occhi, altri ancora – e non è stata una sorpresa – sono rimasti chiusi nei loro pregiudizi. Io ho a mia volta leggerment­e corretto il “tiro” profession­ale, spostandom­i dal turismo business a quello leisure, pur senza abbandonar­e del tutto il primo. Ciò che mi lega al mondo dei meeting è troppo profondo perché io possa rinunciarv­i. Ma più d’ogni altra cosa sono diventato scrittore, realizzand­o un sogno antico. E, secondo sogno realizzato, i miei libri sono stati tradotti e distribuit­i in 14 Paesi. Per cui oggi prendo l’aereo anche per presentare me stesso, salendo sui palchi senza più alcuna paura di mostrarmi per quel che sono.

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