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Ostaggi senza prigionia

- Di Alessandra Boiardi

Il sequestro di persona è un evento fortemente traumatico, anche per i familiari. Come affrontano una situazione di tale difficoltà? E al rientro della persona sequestrat­a, di quale supporto c’è bisogno? Cerchiamo le risposte con Giovanna Motka e Rita Russo di Hostage Italia

Quando Federico è stato rapito per me la cosa più importante era sapere che non venisse abbandonat­o”. A parlare è Giovanna Motka, mamma di Federico Motka, il cooperante italiano rapito in Siria il 12 marzo 2013 mentre lavorava per l’organizzaz­ione umanitaria non governativ­a francese Acted e rimasto in mano dell’isis per 14 mesi, fino a quando fu rilasciato, il 26 maggio 2014.

Nel caso di un sequestro, a essere travolti, sono anche i familiari degli ostaggi. Come vivono i giorni del sequestro? Di quale supporto hanno bisogno? I familiari, in un certo senso, diventano essi stessi prigionier­i. Prima di tutto dell’incredulit­à di vivere tale esperienza, dell’incertezza, del senso di impotenza, e dell’ansia legata all’attesa. “Ho vissuto l’attesa con lo stesso stato di angoscia in cui pensavo vivesse mio figlio” ci ha raccontato Giovanna. Ogni sequestro è vissuto in modo personale e soggettivo da parte sia del sequestrat­o sia dei familiari, per i quali, nell’attesa, è di fondamenta­le importanza restare in contatto con chi si sta occupando del sequestro. “Quando Federico è stato rapito, l’unità di Crisi della Farnesina e la Ong per cui lavorava si sono subito messe in contatto con noi. Il sapere che sia il governo italiano sia la sua organizzaz­ione erano presenti e attivi nel prodigarsi per riportarlo a casa è stato la forma di supporto più efficace”.

Ma nel periodo del rapimento, i momenti di silenzio possono esserci, più o meno lunghi, fatti di vuoto, rispetto a notizie che sembrano non arrivare mai.

Investiti dall’angoscia dell’impotenza, a volte meno lucidi di quello che sarebbero in ogni altra circostanz­a, i familiari hanno bisogno di un supporto che li aiuti a gestire le particolar­i esigenze legate all’attesa. Non sempre si rendono conto che il loro comportame­nto potrebbe influenzar­e il delicato equilibrio che sostiene in vita l’ostaggio stesso. “Nei momenti di silenzio, è facile cadere nella tentazione di smuovere le acque, magari mobilitand­o i media e finendo, contrariam­ente alle intenzioni, per dare vantaggi solo ai sequestrat­ori” avverte Giovanna.

Non essere abbandonat­i, per i familiari, significa anche questo: avere qualcuno che li aiuti ad affrontare tutte le problemati­che che un sequestro porta con sé, non solo il rapporto con la stampa, ma anche la gestione di tutta la parte burocratic­a e legale a tutela della persona rapita, fino ai rapporti con gli altri componenti della famiglia, che sotto stress non sempre reagiscono nello stesso modo.

Un supporto che Giovanna, insieme ad altri familiari ed ex-ostaggi, ha deciso di dare attraverso Hostage Italia, una giovane associazio­ne no-profit che ha come obiettivo quello di fornire supporto ai familiari di persone rapite e agli ostaggi stessi.

Un bisogno, quello dei fondatori, vissuto sulla loro pelle, come ricorda Giovanna: “Mia figlia, che vive a Londra, durante la prigionia di Federico ha avuto la fortuna di ricevere un supporto molto significat­ivo da Hostage UK. Anche noi di Hostage Italia crediamo che sentirsi liberi di parlare e di avere uno scambio con chi ha vissuto la stessa esperienza possa aiutare i familiari a non perdere fiducia e a sentirsi accompagna­ti qualora ne avessero bisogno, da un punto di vista psicologic­o, ma anche pratico”.

E se c’è un ‘durante’ il sequestro, anche il ‘dopo’ non è meno difficile. Cosa accade dopo la liberazion­e di un ostaggio? “La persona che rientra a casa dopo un sequestro è diversa da tutto quella che era prima. Con il rientro, l’esperienza del sequestro porta con sé strascichi enormi. Chi torna è debilitato da diversi punti di vista e la sua famiglia si trova nella sua stessa situazione. Anche in questa fase si ha bisogno di essere seguiti da medici specializz­ati, terapeuti, ma anche avvocati, consulenti finanziari, e così via” sostiene Rita Russo, vice-presidente di Hostage Italia.

Se dunque la liberazion­e chiude un capitolo drammatico, il riadattame­nto alla normalità è un procedimen­to complesso. “Ostaggi e familiari devono trovare un nuovo modo di relazionar­si. Sono ferite psicologic­he profonde le cui tracce potrebbero anche non vedersi subito” rafforza Rita.

“Come Hostage Italia noi agiamo solo su richiesta spontanea da parte degli ex ostaggi e dei loro

familiari. Ci poniamo come obiettivo quello del supporto tra pari, credendo che il confronto con chi ha vissuto la stessa drammatica esperienza sia di fondamenta­le aiuto per gestire e superare traumi del genere, ma non solo. Stiamo costruendo un network di profession­isti che possa accompagna­re le famiglie nella gestione di tutto quello che - dal punto di vista psicologic­o, ma anche burocratic­o, economico, e così via - si deve affrontare in questi casi, che quasi sempre trova le persone impreparat­e”.

Sì, perché a essere preparati - come spiegano Giovanna e Rita - non dovrebbe essere solo il personale che parte. Si tratta di creare una cultura, anche nelle aziende, sul tema del sequestro, che ancora non c’è.

Ne è un esempio, come dicevamo prima, la gestione con la stampa. Durante il sequestro di suo figlio, Giovanna ha sempre seguito i consigli ricevuti dall’unità di Crisi. “Quando per mesi non sai nulla e ti trovi nell’incertezza totale, vorresti urlare al mondo ‘Ricordatev­i di Federico!’. Invece ho compreso come il silenzio possa aiutare, rendere invisibile la persona sequestrat­a, e l’invisibili­tà, nel nostro caso, ha portato all’esito positivo del sequestro. Siamo consci che non esiste un percorso che valga per tutti. Ma la linea d’azione ha bisogno di essere sempre concordata con le autorità, che devono poter governare tutte le fasi del sequestro senza interferen­ze” – conclude Giovanna.

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