Partire o non partire?
“I soldi non sempre donano la felicità, i viaggi si”. La dott.ssa Cicchiello, psicologa e psicoterapeuta, ci spiega perché viaggiare fa bene anche nei momenti di crisi.
Dai primi giorni di marzo il governo ha approvato dei provvedimenti per fronteggiare la pandemia che hanno avuto importanti ripercussioni sulla vita sociale di ciascun cittadino e sull’economia del Paese. Una misura considerata maggiormente restrittiva è stata quella degli spostamenti sul territorio. Le persone dovevano circolare il meno possibile e, per molto tempo, solo all’interno della propria regione di appartenenza per salvaguardare la salute di tutti e ridurre le possibilità di contagio.
Gli studiosi hanno esaminato i disagi psicologici causati inizialmente dalla quarantena e, in seguito, dal semi-isolamento nelle popolazioni colpite dal Covid-19. È emerso che coloro che hanno vissuto la quarantena sono diventati più vulnerabili ad alcuni disturbi psicofisici, quali ansia, sbalzi d’umore, stress post traumatico, lavaggio compulsivo delle mani, forme di evitamento di aree affollate, paura della contaminazione. Gli agenti stressanti considerati più impattanti durante il lockdown sarebbero stati soprattutto la mancanza di informazioni chiare e precise, che ha generato ansia e frustrazione, e l’inadeguatezza delle risorse e degli strumenti forniti ai cittadini. Alla fine del confinamento, le difficoltà maggiormente riferite dai vari soggetti riguardavano la paura della stigmatizzazione, il manifestarsi di disagi psicologici, il senso di isolamento e solitudine, la tri
stezza e, soprattutto, il minore potere d’acquisto dovuto alle perdite finanziarie. L’incertezza economica insieme al timore di un possibile contagio, hanno imposto l’investimento del denaro nei bisogni di primaria necessità (salute, nutrizione, casa…) piuttosto che in tutti quei servizi ritenuti non essenziali, fra cui gli intrattenimenti, i viaggi e i trasporti.
La paura di muoversi, quindi, in questo periodo non è determinata da un disagio psicologico vero e proprio, come avviene a chi soffre di disturbi d’ansia, ma da un’ansia da viaggio transitoria di cui tutti possono fare esperienza in particolari momenti della vita, per lo più per le motivazioni accennate in precedenza.
Eppure il viaggio è un’esigenza insita nell’essere umano che si traduce nell’ammirare paesaggi diversi da quelli quotidiani, esplorare l’ignoto, il non familiare, entrare in contatto con altre culture, ricercare se stessi, facendo esperienza della propria unicità e diversità. Ma anche allontanarsi dalla routine e dall’insoddisfazione, provare un senso di libertà, mettere in discussione il proprio sé integrandolo con nuove competenze, potenziatrici dell’autostima così come incrementare le conoscenze e il bagaglio di saggezza interiore.
Viaggiare può riempire sia i cuori di gioia e di forti emozioni, sia la mente di sogni, ma se si è preoccupati per qualcosa spesso ciò non si realizza. Secondo alcuni ricercatori, l’esperienza del viaggiare è legata ad aspetti individuali e sociali.
L’indagine condotta sulla necessità di viaggiare ha assunto caratteristiche diverse in base al periodo storico. Infatti, negli anni ’60 le variabili maggiormente studiate alla base del comportamento del viaggiatore erano la “familiarità” e la “novità”.
Alla fine degli anni ’70, le ricerche psicologiche sono state indirizzate soprattutto al comportamento dei cosiddetti “Sensation Seekers”: individui particolarmente attratti dall’avventura e dai viaggi. Quei soggetti erano motivati dal desiderio di sperimentare cose sempre diverse, nuove, e talvolta per riuscirci si esponevano anche a situazioni rischiose. Erano contraddistinti da quattro caratteristiche essenziali: la ricerca del brivido e dell’avventura, la voglia di fare nuove esperienze, una maggiore suscettibilità alla noia, la tendenza a una
grande disinibizione nei contesti sociali. In quegli stessi anni è stato sdoganato il concetto di “turismo di massa”, nato nel 1845 per opera di Thomas Cook. Un turismo che privilegiava l’aspetto economico del viaggiare a discapito di quello sociale, trasformandosi in un vero e proprio comportamento di consumo.
Negli anni ’80, altri studiosi hanno evidenziato alla base della voglia di viaggiare la ricerca della “novità” detta anche neofilia, che è cambiata in ogni cultura e la sua modificazione è stata spiegata con la teoria della “ricerca della stimolazione ottimale” di Crompton. In sintesi, il viaggatore provava in maniera inconscia a rimediare a uno squilibrio interiore indotto dalla “ricerca della novità” ogni volta che il grado di eccitazione fornito dall’ambiente di vita non era più sufficiente. Attraverso uno specifico livello di stimolazione, l’essere umano cercava di ripristinare l’omeostasi interiore.
Crompton elencò sette modalità che guidavano il processo di ricerca della novità e che influenzavano la scelta del viaggio: 1. Evadere dalla quotidianità, scoprendo luoghi di vacanza diversi da quelli domestici e lavorativi.
2. Esplorare se stessi attraverso la ricerca di ambienti nuovi e non familiari.
3. Cercare il relax per favorire l’allentamento delle tensioni psicofisiche, per esempio nei centri benessere o alle terme.
4. Trovare una sensazione di prestigio nel viaggio con l’obiettivo di sperimentare un senso di appartenenza sociale.
5. Soddisfare l’esigenza di regredire attraverso forme di comportamento più disinibite e meno razionali, quali il non attenersi a orari precisi e cadenzati, lasciarsi andare liberamente al gioco e svincolarsi dalle costrizioni sociali.
6. Rafforzare le relazioni familiari con attività anche semplici che avevano un forte valore di condivisione, difficilmente realizzabili nella frenetica vita di tutti i giorni.
7. Migliorare i legami sociali attraverso scelte turistiche che favorivano scambi interpersonali.
Al di là di quali siano state le teorie che hanno spiegato le motivazioni alla base del viaggiare, è opportuno ricordare che ogni individuo possiede un proprio ideale di viaggio, determinato dall’attribuzione di un significato personale alla vacanza che sceglie.