La cardioposta di Pulsatilla
Immagina un bambino che subisce violenze domestiche e picchia i compagni di scuola. Il dirigente scolastico convoca la famiglia. Il padre arriva a scuola strattonando il bambino, dicendo tra i denti: «Che figure di merda mi fai fare». Si scusa dando agli insegnanti “il contentino”, ma a casa dà al bambino “il resto”. La condotta del bambino peggiora. Il padre viene riconvocato e questa volta, sentendosi apertamente inquisito, si infuria: «Come vi permettete?». Le urla arrivano fino all’aula e il bambino precipita nella vergogna. I servizi sociali appurano che il minore è esposto a comportamenti abusivi e il tribunale dispone un affido presso i nonni. Per non sentire la colpa di aver causato la rottura familiare, e di avere in un certo senso infamato il padre, il bambino riversa ancora più rabbia oppure cresce sentendosi una vittima, cioè nutrendo uno strisciante rancore verso il mondo. Tutte le denunce sono state fatte, i cosiddetti colpevoli sono stati puniti, eppure nessuno ha risolto il suo trauma: né il bambino, né il padre, né la società. Quello in cui credo io è il buon esempio. Immagina una classe dove regna un clima armonico, dove i bambini incarnano i valori umani che respirano in famiglia, dove il bambino intemperante non crea scandalo perché il tessuto è sufficientemente robusto da incorporarlo. Piano piano si renderebbe conto che in quel contesto la violenza non ha utilità sociale, che il modello della reciprocità funziona, e siccome non pende alcun giudizio su di lui, si sente libero di cambiare. Non per evitare la nota, o le botte. Credo che il cambiamento sia tanto più forte quanto più è voluto da se stessi, anziché imposto dalle istituzioni o indotto dai giudizi. Questo è ciò in cui credo, dare l’esempio. Non trovo che denunciare sia inutile, ma spesso la denuncia è dipinta come l’unica forma di liberazione possibile. Io credo che sia utile per tamponare una situazione, non per crescere individui migliori. Quando siamo noi ad attuare comportamenti distruttivi, l’ultima cosa che ci serve è essere giudicati. Anzi, in quel momento più che mai abbiamo bisogno di un abbraccio collettivo, che ci aiuti a ricucire ciò che dentro sentiamo rotto. C’è una tribù africana dove, quando qualcuno fa del male, i membri del villaggio formano un cerchio attorno a lui e ciascuno, a turno, gli ricorda una cosa buona che ha fatto nella vita. Invece di isolarlo, lo riportano a se stesso. C’è sempre un’alternativa al puntare il dito contro ed è chiedersi: cosa posso fare io per riequilibrare questa situazione? Se fossi nei panni di questa persona, cosa mi aiuterebbe? Rinunciare alla caccia al colpevole è un po’ scomodo, perché significa rinunciare al giudizio, un’abitudine tossica della nostra mentalità. Quando smettiamo di mantenere le persone prigioniere nella colpa, le stiamo liberando. E ci sentiamo veramente liberi anche noi.