Michelle Williams Sono una donna libera. Ma non per caso
Antidiva e riservatissima, Michelle Williams sa però che ogni tanto occorre uscire allo scoperto. E magari iniziare una battaglia che serve a molti altri
OGNI FILM, UN’IMMERSIONE
«A volte mi sento come i personaggi che interpreto: un’aliena sul pianeta terra, alla ricerca del suo posto nel mondo». Quattro nomination all’Oscar, la serie per ragazzi Dawson’s Creek che l’ha consacrata a icona ribelle, moglie del cowboy gay Heath Ledger in I segreti di Brokeback Mountain, quel monologo sul rimorso di coscienza (in Manchester By The Sea) ormai usato come indicatore di talenti in tutti gli Actors Studio. Michelle Williams, 39 anni, ama le trasformazioni. Si è portata a casa due Golden Globe per il suo ritratto di Marilyn Monroe e l’incarnazione di Gwen Verdon nella miniserie Fosse/Verdon. E un po’ come lo scrittore Roald Dahl da cui, in omaggio alla bambina telecinetica Matilda, arriva il nome della figlia (Matilda Ledger, avuta dal compagno Heath due anni prima della sua morte), quando è in scena ha il dono di lasciarsi il mondo alle spalle. Padre politico e operatore di borsa, madre casalinga. Le sue origini? Norvegesi, tedesche, inglesi e scandinave. Non nasconde amore e ferite:
«Il mio volto è un libro aperto. Mi si legge tutto». Un libro che Thomas Kail - suo compagno da pochi mesi, prossimo padre del suo secondo figlio - ha imparato a sfogliare con lei: andranno a vivere in una delle case più costose di Brooklyn Heights. Abito lungo e bianco, occhi color zaffiro: quando la incontriamo in un hotel a Midtown, New York somiglia a una distesa di ombrelli rotti. La pioggia batte così forte da coprire la voce. «Per molto tempo, ovunque andassi, mi sentivo come questa città: una ferita aperta. Ora non più. Il cinema, per me, è dare un senso a ciò che sento. Fino a spingermi ai margini delle possibilità d’espressione». Il 27 febbraio vedremo la Williams nei cinema, insieme a Julianne Moore, in Dopo il matrimonio: ispirato al film danese del 2006 di Susanne Bier, è diretto dal marito della Moore, Bart Freundlich, che ha avuto l’intuizione di cambiare il genere dei protagonisti e farne una storia tutta al femminile.
Dopo il matrimonio è il racconto di due donne e due mondi a confronto. Dov’è andata a raccogliere il cuore del suo personaggio?
«Isabel è un’idealista alla ricerca di fondi per l’orfanotrofio che gestisce in India. Dopo vent’anni di privilegi e metropoli, vive una vita modesta, ha scelto uno stile umile, al servizio dei bisognosi. Un giorno le viene chiesto di tornare in città per stringere un accordo con una manager di successo, Theresa, interpretata da Julianne. E qui le cose prendono una piega inattesa perché quel mondo di potere e benessere che Isabel si è lasciata alle spalle torna a bussare alla porta. E a ricordarle che un tempo era una persona completamente diversa. Penso che i miei viaggi in India abbiano dato un tocco di verità al mio modo di vedere le cose. Isabel è una persona con
parecchio fuoco dentro, come me. Solo un paese come l’India, con i suoi odori, i suoni, la sua potente eredità culturale, poteva darle pace. Il Terzo Mondo ti ricorda che è un lusso lamentarsi dei problemi quotidiani: dovremmo starcene tutti zitti».
Lei, sotto la sua aura di riservatezza, si lamenta mai? «Quando capisci che non si combatte abbastanza per la diversità e l’inclusione è giusto alzare la voce. Per non parlare della parità dei sessi. Non appena si è saputo che per la nuova tornata di riprese di Tutti i soldi del mondo io percepivo molto meno rispetto agli attori uomini, un’umiliazione personale si è trasformata nel più grande palcoscenico della mia vita. Qualcosa capace di smuovere le coscienze politiche e culturali. Come ho detto in un discorso a Capitol Hill: “Se il trattamento è questo per una privilegiata come me, figuriamoci per le altre donne”. Dal momento in cui ho parlato e fatto valere i miei diritti, ho notato un cambiamento in parecchi posti di lavoro».
In che cosa crede?
«Credo nella libertà. Finora ho cercato di vivere la mia vita al meglio. Non l’ho mai data per scontata, non ho mai pensato che fosse frutto di una serie di eventi casuali. Come donna ho potuto scegliere quando avere figli e con chi, non appena mi sono sentita supportata e in grado di bilanciare la mia vita e quella del mio compagno». Che cosa significa recitare?
«Non penso di aver mai avuto una folgorazione. Ricordo che da piccola mi esibivo al Community Theatre ma forse lo consideravo solo un modo di stare assieme agli altri bambini e non andare a scuola. I musical erano il mio forte. Bei tempi… Dai musical sono passata alle cantilene per addormentare mia figlia (ride, ndr). Dove risiedo, a Brooklyn, c’è una comunità teatrale off-Broadway molto viva e mi piacerebbe costruire un collettivo, un giorno. Recitare è un processo del tutto inspiegabile e spontaneo, non ci trovo nulla di intellettuale. Di solito mi lascio trasportare da quello che è impalpabile e va oltre me. Non credo agli attori che dicono che non c’è nulla di personale nel lavoro che fanno. Tutto è personale! E anche quando non lo è, chi ci mette cuore e passione lo fa diventare una questione di vita o di morte. Io, per lo meno, la penso così».
E per le donne, nelle arti in genere, ci sono ancora ruoli per cui vale la pena lottare?
«Nella mia esperienza, le parti e le opportunità sono andate crescendo. Mi sembra di essere maturata passo dopo passo. E quando mi rimproverano di non somigliare a Marilyn Monroe o a Gwen Verdon, io spiego che parteggio per l’aura, per l’essenza, della somiglianza estetica non me ne importa niente. Oggi, quando mi sveglio, avverto un brivido di curiosità: sento che il film della mia vita deve ancora arrivare e che le donne stanno lavorando con me per cambiare il sistema da dentro. Quando non recito, prendo un libro e comincio un altro viaggio. Sto con mia figlia, mi tuffo nell’amore, faccio qualcosa che mi permetta di crescere ed essere una persona migliore».
Si considera un’artista?
«Con il tempo ho capito che il cinema è un lavoro di gruppo. Devi fidarti dell’altro, rispettarlo e amarlo. Si sbaglia insieme, si risolvono i problemi insieme. Il mio debutto a teatro con Cabaret, al fianco di Alan Cumming, mi ha insegnato tutto. Si soffre già abbastanza nella vita: lo spettacolo è puro intrattenimento e ha bisogno di un cuore che pulsa e si mette in gioco ogni giorno. Spero che il pubblico veda quel mio cuore, là sopra il palco, e magari dica: “Guarda, c’è Michelle!”».