Atto zero è solo l’inizio, parola di Anastasio
Al Festival era dato tra i favoriti, perché la sua Rosso di rabbia ha un testo potente, amatissimo dalle radio. È finito al tredicesimo posto, ma lui non se la prende e sportivamente dice: «Tra dieci anni avrò almeno otto dischi alle spalle»
introverso di natura
Lui l’aveva detto subito: «Essere il favorito non vuol dire niente. Significa solo che se non vinci è come se avessi perso». Parla Anastasio, 13esimo in classifica a Sanremo 2020 con Rosso di rabbia. Tecnicamente, gli facciamo notare, è esattamente come dice lui, e cioè che tutti quelli che non vincono hanno in qualche modo perso, ma Anastasio (già visto a X Factor, dove ha trionfato nel 2018 con La fine del mondo) è uno bravo a giocare con le parole e la gira subito così: «Sanremo non è neppure una competizione. Hai già vinto per il solo fatto di esserci stato». Tanti giochi di parole per spiegare che sì, non essere finito sul podio, come prevedevano i bookmaker, brucia, ma non più di tanto. Meglio guardare a ciò che di buono è arrivato da questa esperienza: «Il Festival mi ha dato la botta, il successo che avevo prima mi andava bene, avevo un pubblico affezionato, che mi segue nei concerti. Dai ragazzini agli adulti, i miei fan sono tutti, chiunque si senta stimolato da una mia canzone. E adesso ne arriveranno di nuovi. Incontrare le persone mi carica, quando ho un pubblico che mi incita mi galvanizzo».
Che emozioni ti suscita Rosso di rabbia? Hai mai paura di non ricordare le parole, vista la quantità? «Prima di cantare c’è sempre tanta tensione, e poi adrenalina e poi di nuovo, dopo l’esibizione, un calo. Ma paura di non ricordare il testo, no, non può esserci per un rapper. Il pezzo è mio, lo padroneggio, vado in automatico. E poi funziona così: la prima volta che pensi “oddio non mi ricordo” va a finire che ti viene il vuoto davvero».
In questi giorni è uscito anche il tuo primo album, Atto Zero. Ce lo racconti un po’?
«Atto zero è un album molto vario sia come tematiche sia musicalmente. Ho toccato stili diversi, a volte opposti, ma dentro c’è tutto il mio mondo che è variegato. Ci sono un pezzo chitarra e voce, altri con i chitarroni pesanti come Rosso di rabbia, poi passo all’hip hop e ai synth».
Ci possiamo aspettare anche una virata verso il pop, magari in futuro?
«Non so cosa si intenda oggi per pop: certo, significa popolare ma spesso si pensa che sia musica “leggera”, per distratti, una musica di plastica. Rosso di rabbia, ad esempio, per me è già pop così come tutto il mio album. È un disco curato nei testi e che va ascoltato con attenzione, pur essendo orecchiabile non ha quel carattere di immediatezza tipico del pop. Per farla breve, è difficile portare testi elaborati in questo genere di musica ma è proprio quello che voglio fare io».
Cos’è che oggi ti fa essere rosso di rabbia?
«Niente in particolare. Sono uno introverso, che se ne sta molto per i fatti suoi. Ci sono tante cose che mi fanno incazzare, ma sono tutte micro arrabbiature, faccio parte di quei disperati che vorrebbero avere una scusa, una battaglia per arrabbiarsi, ma in fondo non ce l’hanno».
Questa cosa ti fa apparire un po’ freddo.
«Non sono freddo, sono solo distaccato da ciò che accade. Passo il tempo scavandomi dentro, continuamente, ma credo di essere una persona semplice, tranquilla, non uno troppo complicato».
E da ragazzo invece?
«Ero sfrenato, curioso, imbranato, soprattutto con le ragazze. A un certo punto però mi sono reso conto che se non mi fossi buttato nella mischia non sarei mai andato avanti. Anche nella musica è andata così: mi sono preoccupato quando ho iniziato a perdere interesse, allora mi sono lanciato e sono diventato più sciolto. Mi ha sempre fregato l’ansia da prestazione, ma ora l’ho superata».
E poi hai preso coscienza del tuo talento…
«Da ragazzino ho iniziato a scrivere le prime canzoncine, degli sfottò dei quali non conservo traccia. La consapevolezza invece è arrivata a 17 anni, col primo ep, Discipline sperimentali. Sono un paesano (è di Meta, nella penisola sorrentina, ndr), non c’è molto rap napoletano nel mio lavoro, i miei riferimenti sono piuttosto i cantautori italiani».
La tua famiglia che dice?
«Mi hanno seguito a Sanremo, abbiamo un ottimo rapporto. Ora però devo rimettermi a studiare. Dopo il liceo classico mi sono iscritto ad Agraria. Mi mancano solo tre esami, ma sono i più difficili!».
L’ultima cosa: hai mai scritto per altri?
«Lo farei perché ci sono canzoni che non posso cantare, non ho una gran voce. Mi hanno chiesto di scrivere un jingle per dentifrici e ho declinato l’invito. Ma tra dieci anni avrò fatto almeno otto dischi».