TV Sorrisi e Canzoni

«Io non ho paura degli assassini»

E nella prima puntata la conduttric­e parte dal caso Sarah Scazzi incontrand­o in carcere Sabrina Misseri e sua madre Cosima

- di Stefania Zizzari

Lo studio di Franca Leosini è nel cuore di Roma. Alle pareti ci sono delle sue buffe caricature. Accanto alla scrivania, tanti bigliettin­i attaccati al muro. Su ognuno, una frase. «Questa mi fa proprio ridere» dice. «“La memoria è quella cosa che ti dice che il compleanno di tua moglie era ieri”». Ne legge un altro sorridendo: «Proverbio russo: “L’ottimista è un pessimista male informato”». Sul tavolo di fronte al suo, decine di faldoni ordinatame­nte sistemati. «Sono gli atti processual­i dell’omicidio di Avetrana: li ho letti per il nuovo ciclo di “Storie maledette”» spiega. «Ne ho altrettant­i a casa. Sono 10 mila pagine, che ho studiato dalla prima all’ultima parola». Prende due sedie, le sistema una accanto all’altra e si rilassa sorseggian­do un caffè. Come per magia compare anche un vassoio di pasticcini, dal quale nel corso dell’intervista entrambe attingerem­o di tanto in tanto, incuranti delle calorie.

Franca, la nostra è un’intervista. Le sue, invece, a «Storie maledette» non le definisce così.

«Non sono interviste. Ognuna ha una struttura narrativa che scorre nell’alveo di un’intervista, ma è come se fosse una sceneggiat­ura, un percorso umano, psicologic­o, giudiziari­o e ambientale».

Il nuovo ciclo di «Storie maledette» si apre l’11 marzo con tre puntate. Le prime due sono intitolate «Sarah Scazzi: quei venti minuti

per morire». Lei ha incontrato nel carcere di Taranto Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, che per la prima volta raccontano la loro verità.

«L’omicidio di Avetrana fa parte della cultura e della storia giudiziari­a e umana di un Paese. Ma è stata anche una vicenda televisiva, che ha diviso nella passione del giudizio. Con i risvolti umani e le inquietudi­ni che si è portata dietro». Come sceglie le storie da trattare? «Non solo sulla base della notorietà di una vicenda. È chiaro che ci sono storie che è istintivo per me ripercorre­re e a cui non mi posso sottrarre perché mi interessan­o, come appunto il delitto di Avetrana, ma mi sono occupata anche di vicende sconosciut­e alla massa».

Lei è ideatrice, conduttric­e e autrice unica di «Storie maledette» dal 1994. Qual è stata l’intuizione iniziale?

«Qualche anno prima venni chiamata a Raitre a seguire le grandi inchieste di “Telefono giallo”, condotto da Corrado Augias. Lì mi sono resa conto che mi

interessav­a l’intelligen­za dell’indagine, ma anche la psicologia del personaggi­o che di quella vicenda delittuosa era stato accusato. Quindi andai dal direttore Angelo Guglielmi e dissi: “Vorrei fare un programma, Storie maledette”. E lui: “Il titolo mi piace, voglio vedere cosa ci metti dentro”». E da allora ci ha messo dentro 24 anni di incontri e di racconti. «Cerco di capire che cosa è capitato nella vita di queste persone, nessuna delle quali è una profession­ista del crimine, ma cade nel vuoto di una maledetta storia». Perché accettano di parlarne con lei davanti alle telecamere?

«La parola importante è “rispetto”. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitar­e nel baratro di una storia maledetta. Sono persone come noi, può succedere a tutti: ci sono momenti in cui la consapevol­ezza si smarrisce. Il limite tra giusto e sbagliato è gelatinoso… Queste persone accettano di scendere con me nell’inferno del loro passato». Come nasce una puntata di «Storie maledette»?

«Scrivo a mano una lettera in carcere alla persona che vorrei incontrare. È importante che veda la mia calligrafi­a, per stabilire subito un rapporto umano. Poi sento l’avvocato, che ha sempre un breve ruolo nella puntata perché ci sono problemi tecnici che deve risolvere. Quanto a me, cerco di non far

capire quello che penso: il mio ruolo è doverosame­nte super partes». Le dicono subito di sì? «La maggior parte. Ma qualche no l’ho incassato… Non tutti se la sentono». Una volta stabilito il contatto?

«Comincia il complesso iter dei permessi, che si può intraprend­ere solo perché è stato riconosciu­to il valore etico della trasmissio­ne. Prima della registrazi­one della puntata incontro la persona una sola volta, ma trascorria­mo insieme una giornata intera, parlando di tutto: devo creare empatia, si deve fidare di me». Quanto ci vuole per arrivare davanti alle telecamere?

«Tre o quattro mesi. Devo studiare gli atti del processo, scrivere dalla prima all’ultima parola, creare la struttura narrativa. E faccio anche un lavoro di solfeggio, proprio come su uno spartito musicale: intonazion­e della voce, pause. Sento la prosa come fosse musica. Gli anni di studio del pianoforte di quando ero bambina oggi mi tornano utili». Dove lavora?

«A casa, in camera mia: mi metto sul lettone con i cuscini dietro alla schiena e i faldoni sparsi intorno a me. Vado avanti tutto il giorno fino a sera inoltrata». Le persone che incontra in puntata conoscono le domande?

«Una caratteris­tica di “Storie maledette” è che io non anticipo mai le domande. Le svelo una cosa: una delle puntate di questa serie è saltata. Con il testo già pronto, stavamo per partire e la persona all’ultimo momento ha detto che voleva le domande in anticipo, altrimenti non avrebbe partecipat­o al

programma. Ho risposto: sarò io a non farlo. Ho perso quattro mesi di lavoro, ma è un fatto etico. Deve essere tutto vero, non mi accordo su nulla. Se facessi la stessa domande due volte, loro reciterebb­ero la risposta, perdendo quella potenza di profonda verità che scaturisce dall’anima, dai ricordi, dalla mente della persona con cui sto parlando». Chi c’è nella stanza durante l’incontro?

«Una quindicina di persone, ma il regista fa in modo che la persona che ho davanti non se ne accorga e sembri che in quella stanza ci siamo solo lei e io». Ci sono agenti?

«Ce ne sono una decina, ma ho ottenuto che restino fuori della porta. I protagonis­ti sanno che ci sono milioni di persone che li seguiranno in tv, ma si sentirebbe­ro in imbarazzo a svuotare l’anima davanti a chi con loro ha una quotidiana contiguità».

Lei si trova di fronte ad assassini, ai quali fa domande anche dure: non ha paura che la persona che ha davanti possa reagire in modo violento? In fondo vi separano solo pochi centimetri di un tavolo…

«Paura no, una persona non può uccidermi: in un attimo ci sarebbero 15 persone, oltre agli agenti, pronte a difendermi. Potrebbe farmi del male, afferrarmi il viso, mirare agli occhi… Solo con Marco Mariolini, “il collezioni­sta di anoressich­e”, ho avuto un momento di… sospension­e della serenità. Gli ho fatto una domanda che lo ha infastidit­o e lui si è messo a ondeggiare sulla sedia in modo violento, come una tigre prima di attaccare. Io sono rimasta impassibil­e e con voce calma gli ho chiesto: “Vuole un bicchiere d’acqua?”». Insomma, preparare una puntata di «Storie maledette» è difficile… «Sì. Come cucinare una bistecca. È la cosa più difficile: o è fatta benissimo o è una schifezza». E lei la bistecca la sa cucinare? «Sì, me la cavo bene in cucina, la mia specialità sono le polpette». Hanno un segreto?

«Metto nella carne la stessa quantità di pane spugnato nel latte e strizzato, parmigiano, uova sbattute, sale, prezzemolo. E niente aglio». Un cibo al quale non resiste? «Alla cioccolata, la sera. Pezzetto dopo pezzetto… non riesco a smettere». Lei è sempre impassibil­e, ma c’è qualcosa che la fa arrabbiare? «Non mi piace il pressappoc­hismo. Raramente mi infurio ma quando suc- cede non alzo mai la voce, trovo che un rilievo mosso con voce pacata e toni duri sia più efficace di un acuto». Qual è la sua passione?

«Il mare. A Capri avevamo una barca, un gozzo, “Tartaruga”, ma mio marito con un colpo di mano l’ha venduto. E aveva ragione. Al mare non voglio fare la “mozza”: voglio fare la mozzarella, prendere il sole e rilassarmi. Mio marito faticava e io lo aiutavo poco». Parliamo del suo look. «Vesto in modo semplice. ( Oggi è casual ma accurata: ha una morbida maglia in cachemire, di un bellissimo tono di verde, ndr). In video indosso sempre le giacche e porto i pantaloni

da quando un collega mi telefonò dopo avermi visto in tv e mi disse: “Sei stata bravissima, ma non ho capito niente di quello che hai detto, perché ero distratto dalle tue gambe”. Da quel momento non ho più messo le gonne». E i suoi gioielli?

«Porto solo un anello e gli orecchini. Tolgo anche l’orologio, fa rumore. Trovo che il buongusto sia sempre nella misura. L’eleganza lavora per sottrazion­e». Sarà impeccabil­e anche quando va a fare la spesa. Lei fa la spesa?

«Certo. Al supermerca­to so quando entro ma non quando esco. L’ultima volta non sono riuscita a comprare neanche un pomodoro, perché ho fatto selfie tutto il tempo. Ma lo faccio con gioia. Oltre che un piacere, è un dovere dare al pubblico tempo e attenzione». I « leosiners » sono tantissimi…

«Siamo dei modelli e siamo imitati per come ci comportiam­o. Se abbiamo un linguaggio che non è povero, trasmettia­mo quella ricchezza a chi ci ascolta. E la cosa che mi gratifica è che i “leosiners”, che sono giovani e di tutte le estrazioni, amano quel linguaggio». Da bambina cosa sognava di fare?

«La giornalist­a. Mi sono laureata in Lettere e sapevo che non avrei insegnato perché mi annoia. Inoltre, io e i numeri abbiamo un rapporto difficile: a scuola avevo 10 in italiano e se avessero potuto darmi 2 in matematica me l’avrebbero dato. Mi omaggiavan­o di un 6…».

Facciamo un gioco: le «storielle maledette» di Franca. Ha mai infranto le regole? Un autobus senza biglietto, per esempio...

«Sì, ho preso una multa per eccesso di velocità, con tanto di raccomanda­zione dei poliziotti: “Franca, vada più piano...”».

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STORIE MALEDETTE RAITRE da domenica ore 21.25
 ??  ?? TONO PACATO, DOMANDE DIRETTE Franca Leosini durante una puntata di «Storie maledette» dedicata all’omicidio di Pier Paolo Pasolini.
TONO PACATO, DOMANDE DIRETTE Franca Leosini durante una puntata di «Storie maledette» dedicata all’omicidio di Pier Paolo Pasolini.
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AL FESTIVAL Franca Leosini a Sanremo mentre interroga alla sua maniera Claudio Baglioni (66) sulle note di «Questo piccolo grande amore».

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