Con Sorrisi la discografia completa .......
BIAGIO ANTONACCI si racconta a Sorrisi, dalle origini fino al grande successo. E in edicola arriva tutta la sua discografia
Nei suoi concerti rispetta e canta la sua storia. «Ma quando torno a casa» spiega «mi comporto come se nulla fosse mai accaduto». No, Biagio Antonacci non ama le celebrazioni del passato. Eppure alle spalle del cantautore ci sono ben 30 anni di carriera e un patrimonio di brani d’amore sconfinato. «Ci sono miei dischi che non si trovano più nei negozi» dice «e oggi vorrei che il pubblico li sco- prisse. Specie quelli prima del successo».
Si riferisce ai due album prima di «Liberatemi»?
« Esatto. “Sono cose che capitano” e “Adagio Biagio” li definisco i dischi del “chissà se ce la faccio”. Hanno dentro la speranza in un futuro fuori dal mio studio di geometra».
Al primo Sanremo nel 1988 lavorava ancora tra cantieri e piano bar, giusto?
«Esatto, per questo sono arrivato su quel palco pieno di aspettative. Mi presentò Miguel Bosé chiedendomi cosa ne pensassi di quella mia prima apparizione in tv. Dissi una stupidaggine».
Disse: «La televisione dà una carica bellissima».
«Che pesantezza! Ho imparato a mie spese che la leggerezza in alcuni momenti della vita ti manda sempre in pareggio. Ero terrorizzato».
Perché?
«Arrivavo al Festival a 25 anni. Ero già molto adulto. Se sei giovane e il brano funziona, arrivi subito alla gloria. Nel mondo della musica più sei grande, più è difficile emergere»
È vero che dopo il secondo album ha fatto un
concerto con meno di 50 spettatori paganti?
«Erano 37, per la precisione. In quegli anni mi ero esibito con Ron e con gli Stadio ma il primo tour tutto mio fu un disastro. In quella data ad Alassio feci un buco nell’acqua».
Poi con « Liberatemi » arrivò il grande successo.
«Il successo è una creatura bellissima, difficile da mantenere ed educare. Se non lo sai tenere, scappa».
Negli anni ha dimostrato di saper parlare alle donne come pochi altri.
«Lo devo a mia madre, bravissima sarta. Lavorava in casa e io sentivo tutte le sue clienti, i loro racconti, i mille problemi. E poi c’erano Magda e Roberta».
Erano fidanzatine dell’epoca?
«No, due compagne di scuola. Stavo seduto in mezzo a loro e tutto il giorno non facevano altro che parlare di uomini. Non sono l’unico che è cresciuto circondato da donne, ma ero uno dei pochi che trasformava la loro visione del mondo in poesie».
Davvero?
«Le scrivevo per le ragazze di cui mi invaghivo e ne vendevo qualcuna ai miei compagni. Volevano fare colpo con le mie dediche».
Questa passione per la scrittura è arrivata anche a suo figlio Paolo.
«Quando i figli crescono, noi genitori diventiamo spettatori delle loro vite. Vedo che Paolo scrive belle canzoni e sono fiero che abbia fatto tutto da solo».
Un po’ come lei.
«Eh sì, ero solo un bambino che suonava i divani come percussioni, il tutto all’ottavo piano di una casa popolare a Rozzano».
Dove colloca le emo- zioni più forti della sua carriera finora?
«Nel 2007, quando sono salito sul palco del mio primo concerto in uno stadio, e nel 2011, in ogni singolo attimo della data al Colosseo. Si trovano in dvd nella vostra collezione ( vedi a destra, ndr), sono serate che non dimenticherò mai».
Quali sono stati invece i suoi primi concerti da spettatore?
«Credo la PFM e gli Area. Ricordo che a 18 anni, quando ero ancora carabiniere, andai a un concerto di Lucio Dalla per incontrarlo e dargli una cassetta con le mie prime canzoni».
Quando riascolteremo i suoi brani, dove ci consiglia di soffermare la nostra attenzione?
«Sulle parole che ho scritto. Oltre i grandi successi, oltre i brani che mi hanno reso popolare, c’è un mondo di riflessioni sulla vita e sull’amore che non è ancora consumato nel tempo. Ne vado molto fiero».
Quali saranno i suoi prossimi passi?
«Anche se non è passato molto tempo dalla pubblicazione di “Dediche e manie”, ho trascorso un periodo all’Isola d’Elba per scrivere nuova musica. Mi godo il riscontro del singolo “Mio fratello” in radio. Penso al futuro senza scadenze».
Abbiamo notato che lei e Sorrisi avete molto in comune.
«Parliamo un linguaggio semplice. Diamo più importanza ai contenuti che al contenitore. E poi entriamo nelle case degli italiani in punta di piedi. Anzi, ad altezza d’uomo».