MI RITORNI IN MENTE
si alternavano sul palco cantando “Un’avventura”. Noi due però eravamo grandi amici e quindi gli chiesi di fare da padrino alla bambina. Sicuramente è il Sanremo che ricordo con più affetto, accanto a quello del mio grande ritorno, grazie al brano “Io amo” scritto da Toto nel 1987». “Ma dove va a finire il cielo? Magari dove dormi tu”... Il pezzo iniziava così. «Una voce come quella di Fausto io non l’ho mai più sentita» spiega Cutugno, autore del testo. «Sono orgoglioso di avere affidato a lui la mia canzone» dice. E poi confida a Sorrisi un retroscena della finale del 1980, quando vinse con “Solo noi”: «Dovevo andare alla festa all’Hotel Nazionale, ma dissi a mia moglie Carla che avevo bisogno di fare una passeggiata. E volevo farla da solo. Allora presi la macchina e guidai fino a Bordighera. Pioveva un po’, ma andai in spiaggia, a riva, allargai le braccia e mi misi a urlare con tutto il fiato che avevo in gola. I fotografi sul palco alla premiazione mi avevano preso in giro perché ero serio, non sorridevo. Credevano che non fossi contento della vittoria, ma in realtà io non ero mai stato così felice nella mia vita e avrei voluto gridarlo anche a mia mamma Olga, che non c’era più da un paio d’anni» ( si commuove, ndr).
Io non ci volevo venire!
Marcella Bella e Donatella Rettore, che le malelingue considerano “nemiche-amiche” per antiche polemiche sanremesi mai sopite, hanno almeno una cosa in comune: un’edizione del Festival a cui hanno partecipato controvoglia. «Per me è stato il 1981. Non ci volevo proprio andare» lamenta ancora oggi Marcella. «Avevo una canzone tremenda: “Il limone non ci va sul pesce... Scotta ancora la banana flambè...”. Mi hanno costretto a cantarla, questa “Pensa
per te”, con la scusa che era ironica. Per me invece era solo un brano inutile, non ero convinta. Cercavo di consolarmi scegliendo un look simpatico: tutine con la vita strizzata, spalline, ma non è servito. Avevo la luna così storta che non mi sono accorta dei litigi degli altri».
E quando oltre all’umore ci si mette anche la salute? «Nel 1986 mi è venuta la bronchite. La sera anziché folleggiare andavo a letto con il pigiamone di flanella e imbottita di cortisone. E poi manco volevo partecipare» puntualizza Rettore . «Ma la mia casa discografica me lo impose. Mi pagai pure la stanza d’albergo da sola e ci è mancato poco che dovessi accollarmi il conto di una cena di Fred Bongusto con 40 persone addebitata a me per errore. Almeno ho cantato bene, oltretutto un brano che non era stato scritto per me ( era destinato originariamente a Viola Valentino, ndr). Mi sono messa la mia giacca bianca con le ali e alla fine “Amore stella” l’ho fatta mia, di pancia».
Fiori, chiodi e vampiri
Nella città dei fiori i
Ricchi e Poveri (nella foto a destra nella formazione originaria al completo, con Franco Gatti e Marina Occhiena) sono approdati nel 1970, cantando “La prima cosa bella”, condivisa con Nicola Di Bari. «Doveva farla Gianni Morandi, ma rinunciò» precisa Angela. «Non ci potevamo credere. Io non avevo neanche la valigia: misi quattro cose alla rinfusa come al solito mio in una borsa. Fu la nostra grande occasione». Tutto merito di un certo Califano... «All’epoca Franco ci portava in giro a bordo del suo macchinone bianco, ci faceva esibire nei locali di Roma e Milano e ci trovò l’etichetta discografica per il Festival» spiega Angelo. «Quell’anno vinsero Celentano e Claudia Mori con “Chi non lavora non fa l’amore”, ma anche noi vendemmo tanti dischi. Prima del debutto, un carpentiere del teatro ci regalò un chiodo storto. Disse che ci avrebbe portato bene e così è stato». Chissà che fine ha fatto quell’amuleto... «L’avrà messo in banca Franco» scherza Angelo. «Era lui il detentore, il custode del portafortuna».
Quando si lavora in una band, complice la tensione della gara, a volte basta un nonnulla per agitarsi. Ne è convinto Red Canzian, che con i Pooh ha vinto nel 1990. «Ci davano per favoriti fin dall’inizio. I giornalisti stavano lì a controllarci sperando che facessimo un passo falso. Smontarono la tastiera per vedere se cantavamo in playback, ci fecero cambiare il verso sul Corriere della sera con “giornale della sera” perché altrimenti era pubblicità occulta. Insomma, ci avrebbero guardato persino in bocca per capire se avevamo capsule in plutonio ( ride). Nel mezzo dell’esibizione, Stefano D’Orazio ( il batterista, ndr) mi colpì sulla spalla con la bacchetta e mi venne un colpo: avevo un pipistrello sulla giacca! C’era di tutto al Palafiori quella volta lì. Non posso neanche dire di aver vinto Sanremo con “Uomini soli”, perché stavamo ad Arma di Taggia, a sette chilometri dal centro, lontano dall’Ariston che era in restauro. In un casermone umido e brutto... un posto da vampiri».