Vanity Fair (Italy)

Dopo le lacrime, IL CAPPUCCINO

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con un gol formidabil­e. L’Uruguay è inferiore per capacità tecniche e stazza fsica, gioca davanti a 200 mila tifosi brasiliani scatenati e sta pure perdendo. Al suo posto temo che mi sarei lasciato andare. Che mi sarei consegnato al destino avverso. Magari avrei cercato la «bella morte», buttandomi all’attacco nel tentativo sgangherat­o di rimontare e venendo che i brasiliani si sfoghino in dribbling strafotten­ti. Poi, appena gli avversari affaticati rallentano il ritmo, viene fuori come un serpente dalla cesta dell’incantator­e. E colpisce. Una prima volta e poi una seconda. Con durezza non disgiunta da una certa dose di poesia. Uruguay batte Brasile 2 a 1. Uruguay campione del mondo. L’impossibil­e, insomma. La partita più flosofca della storia del calcio, la defnì il sommo scrittore di sport Gianni Brera. Se ripenso a tutte le volte in cui ho reagito con scompostez­za a un rovescio esistenzia­le e ho scambiato la mia reazione impulsiva per coraggio, mi convinco che la lezione dell’Uruguay rimane attualissi­ma. Chi è lo stalker, se non un immaturo incapace di difendere la sconftta che, rifutandos­i di ricomincia­re la propria vita, trasforma in uno strazio quella dell’oggetto delle sue ossessioni? Tu hai appena perso una partita molto importante, in cui avevi investito il meglio di te stessa. E pur di non riconoscer­e la sconftta avresti potuto riempirti la vita di recriminaz­ioni e progetti tignosi di improbabil­i rimonte. Invece hai scelto di voltare pagina. Senza strappare o cancellare la precedente. Voltarla e basta, con l’aiuto di quei piccoli piaceri quotidiani che servono a ricordarci come la vita non vada mai giudicata, ma accolta e respirata fno al midollo. Grazie per averci insegnato che si può fare. E come si fa.

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