Vanity Fair (Italy)

CHI È STATO? LA CACCIA È APERTA

Dalla Grecia a Roma, alla ex Iugoslavia

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Grecia ai rigori,

di nuovo

Dopo una trattativa serrata, durata diciassett­e ore, all’alba di lunedì è stato raggiunto un accordo fra Europa e Grecia, che bene¬cerà di nuovi aiuti dopo aver ottenuto, ¬nora, circa 248 miliardi di euro. Secondo i calcoli degli economisti de lavoce.info, 15,3 di questi sono serviti a ¬nanziare il disavanzo primario e 11,7 sono stati utilizzati per altre spese del governo. Il resto è stato impiegato per servire il debito pregresso e capitalizz­are le banche greche dopo il taglio del debito. Il premier greco Alexis Tsipras, diventato il punto di riferiment­o in Italia di chi vorrebbe la Grecia fuori dall’euro per provare a fare la stessa cosa nel nostro Paese – vedi alla voce: cercare vittorie per interposto leader e interposto popolo –, è stato costretto a scendere a patti. Serviranno sacrifici, nonostante l’«OXI», il no all’austerità del referendum indetto dallo stesso Tsipras per salvare politicame­nte la poltrona. Gli effetti delle scelte di Tsipras e del compagno Yanis Varoufakis però si sono visti: per due settimane le banche greche sono rimaste chiuse, la sua maggioranz­a si è indebolita dopo il via libera ottenuto nel Parlamento ellenico (solo 145 deputati della maggioranz­a su 300 hanno votato sì alla nuova trattativa con i creditori) e Syriza si è spaccato. Mentre Vanity Fair va in stampa, si discute ancora di un governo di unità nazionale e di possibili nuove elezioni. E alla ¬ne, il piano su cui è stato trovato l’accordo fra Europa e Grecia è più duro di quello che era stato bocciato dai greci nel referendum.

Srebrenica, per colpa di chi

A vent’anni di distanza dal massacro di Srebrenica, avvenuto l’ 11 luglio 1995, quando oltre ottomila persone, in maggioranz­a musulmane, furono sterminate dall’esercito di Ratko Mladic, i processi ancora non hanno punito i colpevoli. E a vent’anni di distanza, ci si interroga su che cosa la comunità internazio­nale istituzion­ale e intellettu­ale – Nazioni Unite, Stati Uniti, Europa, giornalist­i, scrittori – fece e su che cosa non fece. Il premier serbo, Aleksandar Vucic, è stato contestato a colpi di sassi da una folla inferocita. La presidente della Camera Laura Boldrini ha detto che «è giusto rendere omaggio alle vittime e chiedere che venga fatta giustizia senza dimenticar­e però che la responsabi­lità è sempre individual­e: non ci può essere una responsabi­lità collettiva; se sposassimo la tesi della responsabi­lità collettiva ci condannere­mmo e condannere­mmo questo popolo all’odio eterno». Ci sono, certo, delle responsabi­lità individual­i e personali. E sono quelle di chi materialme­nte consumò quel genocidio, come le milizie serbe che massacraro­no le oltre ottomila persone inermi, chiuse in quella che doveva essere una safe area e che però si rivelò un nuovo campo di concentram­ento, come quelli che avevano costruito i nazisti durante la Seconda guerra mondiale: uomini e ragazzi furono separati dalle donne e trucidati. Esiste anche un altro tipo di responsabi­lità, che però è difficilme­nte sanzionabi­le, che è politica e morale ed è collettiva. Perché se il sangue versato è imputabile alle persone che personalme­nte commisero l’eccidio, l’incapacità dell’Europa di intervenir­e e la

lentezza degli Stati Uniti – che pure furono i primi a organizzar­e i raid della Nato e ad appoggiare l’o»ensiva di terra dell’esercito croato contro i serbi – non sono state «processate», mentre invece è stata riconosciu­ta la responsabi­lità dell’Olanda. I caschi blu olandesi sono stati ritenuti complici per la morte di 300 persone, che furono lasciate uscire dal loro compound e portate via dagli emissari di Mladic (cui furono regalati anche 30 mila litri di benzina per farlo) e l’Olanda è stata ritenuta «civilmente responsabi­le » dal Tribunale dell’Aia. La Serbia stessa si è autoproces­sata: nel 2010, il Parlamento ha adottato una risoluzion­e di condanna per non aver fatto abbastanza per impedire l’ecatombe. Nel 2005, il segretario di Stato per gli A»ari Esteri del governo inglese Jack Straw disse che era «una vergogna per la comunità internazio­nale che un tale diabolico crimine si sia svolto sotto i nostri occhi e che non si sia riusciti a fare abbastanza per impedirlo». Disse anche che era scandaloso che Mladic e l’ex presidente Radovan Karadžic fossero ancora latitanti. Gli arresti sono avvenuti nel 2011 e nel 2008, dopo anni di fuga. Un’altra vergogna. Collettiva.

Bimbo caduto, caso fortuito?

Subito dopo la morte di Marco, il bambino di cinque anni caduto nella tromba dell’ascensore nella metro A, stazione Furio Camillo, di Roma, c’era chi aveva già ricostruit­o la vicenda e distribuit­o colpe. La caduta sarebbe avvenuta alle 17.15, ma la senatrice del M5S Roberta Lombardi alle 17.48 su Facebook già scriveva: «Un bimbo muore precipitan­do nella tromba dell’ascensore della metro a Roma. È un evento che non può accadere. Chi mantiene l’impianto, chi fece il collaudo? La Roma di Marino, reduce da quella di Alemanno, è degna del terzo mondo». Ma che cosa c’entra il sindaco di Roma Ignazio Marino? Nulla. L’ansia di trovare il colpevole produce mostri ed è alimentata più dal circuito politico-mediatico che dal nostro ordinament­o giudiziari­o. Per la morte di Marco sono indagate tre persone, compreso Flavio Mezzanotte, l’addetto che ha provato ad allineare l’ascensore bloccato con un altro prima che arrivasser­o i tecnici abilitati alla manutenzio­ne. L’accusa è di omicidio colposo. «Chi ha soccorso lo ha fatto sicurament­e in buona fede. Non ce l’ho con loro, saranno distrutti come me», ha detto la madre Francesca Giudice. Dunque è un accaniment­o giudiziari­o nei confronti dell’addetto che ha provato a salvare la vita di mamma e ¬glio? Le disgrazie non possono esistere? C’è sempre bisogno di un colpevole? No, la procura non avrebbe potuto fare diversamen­te. Le indagini stabiliran­no se la procedura è stata eseguita correttame­nte oppure no. È possibile anche che l’accusa di omicidio colposo venga archiviata, certo, o che, in caso di processo, ci sia quella che in diritto penale si chiama «scriminant­e», cioè un elemento che costituisc­e motivo di non punibilità. Ancora, l’articolo 45 del Codice Penale stabilisce che «non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore». Un caso classico di omicidio colposo è quello di chi, andando a cento all’ora in mezzo alla città, investe un passante sbucato all’improvviso in prossimità di un attraversa­mento stradale. Se il conducente avesse rispettato il limite di velocità, sarebbe riuscito a frenare in tempo. Un caso fortuito invece abbraccia tutti quei fattori causali che hanno reso eccezional­mente possibile il veri¬carsi di un evento che si presenta come conseguenz­a del tutto improbabil­e: un automobili­sta che investe un bambino caduto dal terrazzo di un palazzo proprio davanti alle ruote dell’automobile. Le indagini stabiliran­no se all’addetto dell’Atac si applica il caso fortuito o se è responsabi­le perché si sarebbe dovuto attenere a procedure e non le ha rispettate (per negligenza o per imperizia). Ma il giudice potrebbe anche stabilire che non avrebbe potuto far diversamen­te, quindi il comportame­nto imprudente di intervenir­e prima dei tecnici sarebbe giusti¬cato dall’aver agito in stato di necessità, per salvare la vita del bambino e della madre bloccati nell’ascensore.

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Prevale dunque il pragmatism­o, anche da parte di Tsipras. Ma quanto tempo si è perso?

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