Vanity Fair (Italy)

Maschi che, se non li guardi, TI TIRANO I CAPELLI

- RUBRICA BARBARICA di DARIA BIGNARDI

Superata da un pezzo la linea d’ombra della giovinezza, sono entrata in quella fase della vita in cui si osservano le proprie vicende profession­ali cogliendon­e soprattutt­o gli aspetti buffi e antropolog­icamente interessan­ti. E, dal momento che il mio lavoro è raccontare e condivider­e, racconto e condivido con voi, e al diavolo l’eleganza, qualche faccenda pubblica che mi ha coinvolto la settimana scorsa. Cose piccole, che svaniranno come lacrime nella pioggia, direbbe il mio amico pisano, cose che non andrebbero nemmeno commentate: ma lui fa il giornalist­a, mentre io racconto storie. Urbano Cairo, proprietar­io ed editore de La7, la scorsa settimana ha presentato i palinsesti autunnali della rete. Tra molte altre cose, tutte più importanti ai ¬ni dell’oggetto dell’incontro, ha detto che in autunno non ci saranno Le Invasioni

Barbariche, il mio programma. La notizia – non una gran notizia perché sono anni, da quando ho pubblicato il primo libro, che non vado in onda in autunno – è stata ripresa in maniera folclorist­icamente sproposita­ta rispetto alla sua rilevanza, più delle novità annunciate. Il meccanismo è noto: piacciono di più le (in teoria) cattive notizie di quelle buone. Da anni, per una serie di motivi personali, ho chiesto io di fare solo una stagione (avrei preferito fosse ancora più breve), scelta che il mio gruppo ha generosame­nte condiviso. Per molti è stato complicato, ma sono tutti talmente bravi che alla ¬ne lavorano sempre, e nei programmi migliori. Ora devo dire un paio di cose romantiche sulle Invasioni come gruppo di lavoro. Come ha scritto il più poetico di noi, il Carozzi: «Le Invasioni sono una storia d’amore, con temporali e grandi arcobaleni». Ha ragione. Il lavoro che abbiamo fatto insieme in questi anni è stato più di un lavoro, è stato un viaggio che ci ha uniti per sempre, per molti motivi che hanno a che fare col modo in cui abbiamo lavorato e le persone che siamo ma soprattutt­o con la passione e l’impegno che ci mettiamo. Le Invasioni sono un’entità viva (come il primo programma che ho scritto, Tempi Moderni, tanto che dopo quasi vent’anni va ancora in replica su Mediaset Extra e ha i suoi nostalgici estimatori: il pubblico lo sente se ci metti impegno e passione, e non lo dimentica più). Come in tutti i gruppi di lavoro affiatati e appassiona­ti siamo diventati amici. Sono nati molti bambini, ci sono stati matrimoni (non tra di noi, eh) e anche morti, perché così è la vita: mia madre, altri parenti stretti di alcuni di noi e Stefania, la giovane e bellissima Stefania Raya, il nostro produttore storico, un angelo già in vita. «Se sei stato un barbaro anche solo una volta te lo ricordi per sempre», ¬ngo di scherzare coi miei, ma noi lo sappiamo che è davvero così. Come tutte le cose vere, vive e audaci, le Invasioni hanno molti amici e anche alcuni nemici, perché le cose vive emozionano e se non le condividi le detesti: non c’è niente di male, è un sentimento umano. Io da giovane sono stata molto animosa, dentro di me, e gli animosi li capisco e mi stanno pure simpatici, perché sono umani e infantili. I nostri nemici sono fedeli e non ci deludono mai: anche stavolta, come decine di altre in passato, non ci hanno trascurato, esultando per quella che secondo loro era una cattiva notizia che ci riguardava. Il quotidiano Libero per esempio ha titolato «Trombatiss­ima», pubblicand­o una mia grande foto. Io quel quotidiano non lo leggo (niente di personale, non si può leggere tutto), ma uno dei vicepresid­enti del Senato, che ho fatto pubblicame­nte voto di non nominare mai, si è premurato di mandarmi la foto della pagina via Twitter, insistendo parecchio nel plaudere alla – secondo lui – mia dipartita. È uno dei più fedeli tra i nostri nemici, e oramai gli sono a»ezionata, come a quel compagno che in prima elementare ¾ mi tirava sempre i capelli, Marcello. Marcello l’ho rivisto dopo tanti anni alla presentazi­one di un mio libro a Ferrara. Ora fa l’insegnante di yoga, ha detto, chiedendom­i la dedica. Mi ha fatto molto piacere rivederlo, dopo quarant’anni. «Perché da bambino mi tiravi sempre i capelli Marcello?», gli ho domandato. «Tu non mi guardavi mai. Parlavi solo con Angelo e Giuseppe!», ha risposto.

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