La vita da grandi, che fatica. Grazie per averci aiutato a crescere, JOVANOTTI
Avevo undici anni quando partecipai alla mia prima manifestazione. La causa era delle più nobili: due ragazzine invasate volevano che lo Stato esentasse il loro idolo dal dovere del servizio militare. «Niente naja per Jovanotti!», urlavamo la mia sempreamica Francesca e io, decise a sventare quella terribile ingiustizia, sotto gli studi della radio dove il nostro era ospite quel pomeriggio. Sono passati ventisei anni, lo Stato stranamente non ha accolto la nostra protesta e Jovanotti si è smazzato il servizio militare, ma poi è tornato e non se n’è andato più, sempre in equilibrio fra il bisogno di non tradirsi e la voglia di ricominciarsi. Ha spremuto dall’energia istintiva degli inizi poesia e profondità, ha intrecciato vita e musica, cantando sua glia ha cantato tutti i gli, cantando il suo amore canta l’amore e nel frattempo, anziché starsene comodo a farsi adorare dai suoi quasi tre milioni di follower e dai suoi infiniti fan, è lui che segue gli scrittori e gli artisti che lo ispirano e si confronta con loro, li promuove su twitter, insomma: cresce in continuazione. Eppure domenica, sul palco dell’Olimpico, appena entra e attacca Penso positivo, a me e a Francesca sembra esattamente quello di ventisei anni fa. Ma è un’illusione ottica: siamo noi che torniamo ad avere undici anni. E più lo spettacolo si fa vertiginoso, più Jovanotti si cambia, salta, ancora si cambia e fa luce, più ci ritroviamo tutti ragazzini, ansiosi solo di ballare e fare l’amore. Pure il grande direttore di quel certo quotidiano? Pure lui. Pure la moglie impassibile di quel certo politico? Pure lei. Perché anche se è nd cresciuto, anzi, proprio crescendo, Jovanotti ci indica la possibilità di una terza via, fra l’indirizzo dell’Isola Che Non C’è e quello dove arrivano le bollette e si schiacciano i sogni. Fra il disincanto della consapevolezza e le ingenuità dell’adolescenza, insomma, lui non ha voluto scegliere. E ha rilanciato puntando tutto sull’originalità. È un Peter Pan che può abbandonare la sua Isola senza però dimenticarla, quello che salta sul palco, è un padre glio, è un marito innamorato, un angelo pop, è impegno e surrealtà, è tutto quello che non dovrebbe stare insieme, ma che insieme bisogna tenere per scassinare la realtà con il piede di porco delle nostre esperienze e il cacciavite della fantasia. Tornando a casa, Francesca continua a cantare Sabato, io Ragazzo fortunato. Non parliamo, sorridiamo e basta. Ed è lì. È lì che arriva la rivelazione: sotto quegli studi radiofonici, ventisei anni fa, non ci disperavamo perché Lorenzo doveva andare in caserma. Ci disperavamo perché presto sarebbe stato il nostro turno: e pure a noi sarebbe toccata la caserma della Vita Quella Vera, la vita da grandi. Avevamo ragione: come Lorenzo non ha potuto evitare la naja, anche noi non abbiamo potuto evitare i brufoli e le mestruazioni, l’amore, il disamore, ancora l’amore, « uno strappo che non si ricuce», un altro, la bugia di un amico, la morte di un’amica, i genitori che invecchiano, il ventisette del mese, la verità. Anche noi non abbiamo potuto evitare di crescere. Ma, grazie allo straordinario spettacolo a cui abbiamo assistito stanotte, scopriamo che si può fare senza grossi spargimenti di sangue. Soavemente, addirittura. Basta «procedere in avanti senza passare dalla saggezza». E «non lasciare le nostre bocche senza baci».