MAGIA CAPITALE
Dimenticate per un momento gli scandali: c’è l’altra Roma, quella che il mondo sogna. Noi, per un giorno, l’abbiamo vissuta. Grazie a VALENTINO
Succede nel minivan che, dopo la s¬lata di Valentino Haute Couture in piazza di Spagna, ci sta portando alla cena a Villa Aurelia. Lo dice un ospite francese, mentre guarda scorrere fuori il Lungotevere: «C’è una cosa che mi a»ascina di Roma. A Parigi, di solito, quelli che sono venuti dopo hanno demolito e ricostruito da capo. Qui invece hanno aggiunto ogni volta, conservando quello che c’era. Nello stesso palazzo vedi parti romane e medievali, del Rinascimento e del Novecento». A volte ci vuole uno straniero per aiutarci a vedere l’Italia. Lo ascolto e – clic – capisco che è davvero tutto qui il senso di quello che abbiamo vissuto oggi. Ma su oggi tornerò dopo. L’inizio della storia che voglio raccontare avviene una trentina di anni prima in un’altra città, Firenze, dove Pierpaolo Piccioli, che studia all’Istituto Europeo di Design, arriva da Roma per incontrare un amico. Invece trova ad aspettarlo alla stazione di Santa Maria Novella, munita di cappotto leopardato, cartello col suo nome e Panda bianca parcheggiata fuori, Maria Grazia Chiuri, che giovanissima già lavora per la stilista Chiara Boni: l’amico comune non poteva venire e ha chiesto a lei il favore. Finiscono a parlare per ore e ore di moda, e si intendono così bene che, quando pochi anni dopo Maria Grazia viene chiamata da Fendi, vuole con sé Pierpaolo. Fanno parte del team che ¬rma la fortunatissima borsa Baguette. E nella loro di»erenza e complementarità – lei più istintiva e attenta ai «segni» del destino, lui più cerebrale e analitico – trovano una chimica perfetta. Insieme, nel 1999, si spostano da Valentino per occuparsi degli accessori. Insieme, nel 2008, diventano direttori creativi della maison. Quando entro nel loro uÂcio, quello storico di Garavani, e vedo le scrivanie
attaccate una di fronte all’altra, capisco che cosa intendono quando dicono che non c’è, nella coppia, una vera divisione di ruoli. Il loro modo di rispondere all’unisono, e completare uno le frasi dell’altro, parla di due che ormai non hanno più nemmeno bisogno di parole per capirsi. Ed è inutile fare la stupida domanda: «Non vi viene mai voglia di mettervi alla prova da soli?». Sicuramente ci pensano, ma sono anche abbastanza saggi da capire che insieme formano un miracolo diÂcile da replicare. La loro ascesa al vertice è stato uno «shock al sistema» per una maison abituata al Fondatore e ai suoi modi formali e alle sue abitudini da jetsetter. Maria Grazia e Pierpaolo appartengono a una nuova generazione di stilisti che non hanno pudore della «parte normale» della loro vita – sono entrambi sposati e genitori, Pierpaolo abita ancora con la famiglia sul mare a Nettuno – e che capiscono la di»erenza tra prendere sul serio il proprio lavoro e prendersi troppo sul serio. Sono due delle persone più divertenti che io conosca. E il fatto di avere ¬gli – due lei e tre lui, cinque come i carlini del Signor Garavani – forse acuisce la consapevolezza di dover trasmettere ai giovani il valore della qualità che vince, del lavoro che viene premiato, ma anche la capacità di intercettare il nuovo senza tradire il vecchio. Un’anima rock permette loro di creare pezzi iconici contemporanei e «birichini» – il camouÁage, le borchie della fortunatissima linea Rockstud – che riassumono in una moderna e leggera declinazione tutto il sogno di Valentino, e che senza abbassarlo di un millimetro rendono il suo Dna accessibile a una nuova clientela. Io per esempio, che le loro sneaker le porterei anche sotto il pigiama. Risultato: raccogliere un’eredità quasi impossibile, e farne un successo clamoroso. Ma, soprattutto, Maria Grazia e Pierpaolo sono Roma. Si nutrono di una città che, come giustamente osserva l’ospite francese, è tutta un sovrapporsi di ere e di civiltà. E a Roma, per celebrare la recente apertura dell’ennesimo immenso luminoso negozio ¬rmato David Chipper¬eld, hanno voluto portare un’Alta Moda da 25 anni relegata a Parigi. Romanissima – e suggestivamente integrata nell’an¬teatro della piazza – la passerella-installazione creata dal giovane
artista Pietro Ru»o proprio di fronte al negozio e alla storica sede di Palazzo Mignanelli, una versione in miniatura dei Fori, con dislivelli e strati¬cazioni di legno – di nuovo, il sedimentarsi del tempo – e tutt’intorno pini stilizzati con chiome camouÁage e tronchi-spillo da sarta. Romanissime le ispirazioni: gli archi del Colosseo in una cappa, i cassettoni del Pantheon in un’altra, le dee pagane Áuttuanti nel velluto. Romanissimo il tema di questa Haute Couture: Mirabilia Romae. E azzeccata l’idea di farla precedere da una «Mostra Di»usa» che abbina i pezzi della maison a dieci luoghi di Roma mai visti, o mai visti così. Dal misterioso altare per i battesimi di sangue del dio Mitra, vecchio due millenni, allo studio di Antonio Canova, dove lavora e vive l’artista contemporaneo Luigi Ontani. Romanissimo, italianissimo, il tocco di fata delle sarte nell’atelier: vederle spillare garze delicate come ali di farfalla, quasi cercassero di imprigionare l’aria. Romanissima la scuola di moda, fortissimamente voluta dai due direttori creativi, dove da settembre dieci giovani allievi andranno a lezione di eccellenza. Perché successo è restituzione. La sensazione, dopo la standing ovation al termine della s¬lata, e prima di salire a Villa Aurelia a cenare sospesi tra la luce delle candele sui tavoli e quella delle lanterne appese agli alberi, è che abbiamo assistito a quello che l’Italia sa o»rire quando è al meglio: uno spettacolo incomparabile. Che Parigi, sia detto senza nazionalismi, non potrebbe eguagliare. Che vorremmo vedere più spesso. Provo lo stesso orgoglio di quando, il mese scorso a New York, ho visto Maria Grazia e Pierpaolo vincere – onore toccato a pochissimi connazionali – l’International Award del Council of Fashion Designers of America. Provo lo stesso orgoglio di quando, l’altra sera, ci hanno portati a cena alle Terme di Diocleziano e ho visto cadere la mascella di più di un ospite straniero, evidentemente poco abituato a frequentare ristoranti costruiti duemila anni fa. Questo, a volte a nostra insaputa, siamo noi italiani. E anche se non ci piace ammetterlo, poteva andarci peggio. Molto.