<<CREDO CHE IN TE CI SIA ANCORA QUALCOSA DI UMANO E CHE SIA IL MOMENTO DI PRENDERSENE CURA>>
«Quando ho visto quel che aveva fatto, sono quasi svenuto». Chi oggi agita lo spettro jihadista dimentica che, 4 anni fa, il terrorista solitario più efferato della storia massacrò a Oslo 77 ragazzi, bianchi e cristiani come lui, «per liberarci dall’Islam». Il padre di ANDERS BREIVIK racconta qui lo shock e il senso di colpa. E se pensate che la Norvegia sia lontana, chiedetevi: potrebbe succedere da noi?
Se solo mi fossi sforzato di più. Se solo avessi insistito per mantenere i contatti con mio ¬glio. Quando guardando la Tv ho saputo quello che aveva fatto, lo shock è stato tale che sono quasi svenuto. Non riuscivo a capire. Non riuscirò mai a capire».
Sud della Francia, luglio 2015
Jens Breivik va per gli ottant’anni. Ha modi gentili, e pesa le parole. Vive con la moglie artista in una graziosa villetta circondata dai vigneti ai margini di un paesino della Provenza, lontanissimo dalla sua Oslo. Non è venuto qui per sfuggire all’attenzione dell’opinione pubblica norvegese: il trasloco risale a prima della tragedia. Ex diplomatico esperto di economia, viaggiatore e uomo di mondo, elettore del Partito Laburista norvegese, rappresenta la perfetta incarnazione di quella classe dirigente progressista che suo ¬glio tanto disprezza. È un uomo smarrito, e visibilmente disperato. Ha scritto «come terapia», ma forse anche per tentare di giustificarsi, un libro intitolato Min Skyld? Letteralmente: «Colpa mia?».
Sud della Norvegia, luglio 2011
Utøya è un isolotto coperto di pini che poche centinaia di metri di acqua immobile separano da un piccolo molo di pietra sulla terraferma, a tre quarti d’ora dal centro di Oslo. Da questo molo, il 22 luglio 2011, Anders Breivik, 32 anni, si imbarca sul piccolo traghetto, spacciandosi per un poliziotto. Ma non è un poliziotto. Ha un fucile semiautomatico Ruger Mini-14 caricato a pallottole dumdum, cioè a espansione, cioè progettate per esplodere all’interno del corpo lasciando, in uscita, ferite devastanti, aperte e incurabili. Dagli auricolari del suo iPod tuona, in riproduzione continua, Lux Aeterna. A Utøya, i giovani attivisti del Partito Laburista si stanno godendo il loro annuale campeggio estivo. Breivik li abbatte con il Ruger uno dopo l’altro, con la musica a tutto volume per non sentire le urla e le implorazioni di pietà. Dopo aver colpito qualcuno va a controllare che sia morto, e se non lo è gli spara di nuovo. In questo modo massacra 69 ragazzi: Sharidyn Svebakk-Bøhn, la più giovane, ha appena 14 anni. Qualche ora prima, Breivik ha parcheggiato la sua auto davanti all’ufficio del primo ministro, nel centro di Oslo, e fatto detonare una bomba nascosta nel bagagliaio, uccidendo altre otto persone. 77 morti, 319 feriti: per un terrorista solitario, è l’attacco più sanguinoso che si ricordi. Inizialmente, tutti pensano che l’attentato sia di matrice islamica: si parla di Al-Qaeda, si teme che sia solo l’inizio. Quando si scopre la verità, c’è quasi sollievo: non sono stati i jihadisti, è solo un norvegese malato di mente. Ma quando viene comunicato l’esito della prima provvisoria perizia psichiatrica – Breivik è in effetti malato di mente, quindi per la legge non responsabile delle sue azioni – gran parte del Paese a quella follia non crede già più. La sinistra dà la colpa all’odio scatenato dalla destra contro i partiti favorevoli al multiculturalismo. Ci si chiede se l’alienazione dell’assassino sia la conseguenza di una vita solitaria trascorsa a giocare a videogame di guerra. O se sia invece frutto di qualcosa che è successo nella sua educazione, nella sua infanzia. Nel rapporto con i genitori.
Un bambino dal sorriso strano
Jens si separò dalla madre di Anders, Wenche – descritta come una donna eccentrica, morta di cancro pochi mesi fa –, quando il bambino aveva un anno e mezzo. Si rimprovera di essere stato assente dalla vita del figlio verso la fine dell’adolescenza, cioè proprio il periodo in cui, secondo gli psichiatri, il ragazzo iniziò a deragliare. Ma qualche sporadico contatto tra di loro, racconta, c’è stato. Quando Anders aveva 5 anni, per esempio, passarono insieme le vacanze estive: «Due settimane molto belle. Lui stava bene, sembrava che si divertisse davvero». In quel periodo Jens tentò anche di ottenere la custodia del bambino: a casa non c’era molta serenità. La madre era una donna violenta, le vennero attribuiti anche comportamenti sessualmente ambigui verso il figlio. Che uno psicologo descriveva come «un bambino dal sorriso strano, un sorriso che non sembra scaturire dall’emozione». Venne persino ventilato l’affidamento di Anders ai servizi sociali. Non ci fu nulla da fare: «Io avrei voluto crescerlo, ma Wenche aveva ottimi avvocati». Quando nella prima adolescenza andò temporaneamente a stare con il padre a Parigi, Anders era già stato etichettato a scuola come «elemento difficile». Dettaglio improbabile per un futuro fautore della supremazia bianca: ascoltava rap e frequentava una gang. Eppure Jens lo ricorda come un periodo «molto piacevole:
OGNI GIORNO BREIVIK LETTEREIN CELLA RICEVE CHE LO RINGRAZIANO PER QUEL MASSACRO
di politica non si parlava mai, e non percepivo in lui sentimenti anti-islamici. Anzi, aveva un caro amico musulmano. Anche se, a un certo punto, si sono persi di vista. Negli ultimi anni ci parlavamo. Poco, ma ci parlavamo. Mi diceva di aver avviato diverse attività, e che andavano molto bene. Solo alla fine ho scoperto che non era vero. Non era vero niente».
Signor padre, diventi fascista
Anders Breivik è la dimostrazione vivente del fatto che la percezione del «pericolo Islam» in un Paese è figlia del populismo dei politici più che dell’effettiva presenza di musulmani ( per dire, l’Italia è secondo i sondaggi il Paese europeo più ostile all’Islam, pur avendo una delle comunità islamiche meno consistenti: circa il 2% della popolazione, meno del 2,5% della Norvegia, che è comunque poco rispetto al 5,8% della media europea e all’8% della Francia, ndr). Nel suo farneticante e sconnesso manifesto online, chiedeva l’espulsione di tutti i musulmani dall’Europa, per salvare il continente e il Cristianesimo dall’ «islamificazione». Ma in quelle migliaia di parole, non ce n’era neppure una che spiegasse il perché di tanto odio. E poi, era davvero odio verso l’Islam? O verso il partito dei ragazzi massacrati, il partito bianco e progressista che, guarda caso, era il partito di suo padre? Jens ha scritto una lettera al figlio in carcere. Più che una lettera, una domanda: «Perché?». Anders gli ha risposto dopo parecchio tempo. «Ho avuto la sensazione che la risposta l’abbia scritta subito, ma che abbia aspettato quattro mesi prima di spedirla. Comincia con “Signor Breivik”». Jens sospira. «È una lettera fredda, formale, non quella che mi aspettavo. Dice che è disposto a ricevere mie visite, ma solo se prima rinuncio alle mie idee socialdemocratiche e divento fascista. Usa proprio questa parola: “fascista”. La lettera si conclude con “Cordialmente, Anders Breivik”».
La belva ha un fan club
La seconda e de¬nitiva perizia psichiatrica, quella che ha dichiarato Breivik perfettamente capace di intendere e di volere, quindi penalmente responsabile della strage, quindi da mandare in galera, ha accontentato l’opinione pubblica, e ha accontentato lo stesso Anders: «Meglio il carcere che i farmaci», ha detto il killer. «È un narcisista», mi spiega lo psichiatra Agnar Aspaas, che ha firmato la perizia dopo una lunga serie di colloqui e test. «E poi ha una specie di complesso di superiorità, e una totale mancanza di empatia, pur nella consapevolezza del dolore che le sue azioni hanno generato. Ma il narcisismo viene prima di tutto. Ha presente come si è conciato per presentarsi in tribunale, con la divisa e le medaglie? Voleva che la gente lo ammirasse». «Disturbo antisociale e narcisistico della personalità»: questa la diagnosi di Aspaas su Breivik che quindi, secondo lui, non è psicotico oggi e non lo era mentre massacrava i ragazzi di Utøya. Gli dico che, francamente, non mi convince del tutto. E quell’uniforme, appunto, che secondo lui lo identificava come un templare? La convinzione di essere una reincarnazione di Riccardo Cuor di Leone, alla guida di un esercito capace di strappare l’Europa cristiana al «dominio musulmano», e per questo venerato dalla Chiesa come «cavaliere martire»? La dichiarata consapevolezza di aver commesso «azioni assolutamente orribili», seguita dalla precisazione che «l’obbiettivo non era uccidere 69 persone, l’obbiettivo era uccidere tutti»? La disponibilità a collaborare con la polizia solo se fosse stato prima nominato capo dello Stato, al vertice di una giunta militare? Gli sproloqui in tribunale contro Sex and the
City («Samantha e Carrie facevano sesso con centinaia di uomini, la nostra società va protetta da questa malattia») e contro i pessimi piazzamenti della Norvegia negli ultimi Eurosong? «Essere pazzo non significa essere malato di mente, e quindi incapace di intendere e di volere», mi risponde Aspaas. «Lo sa che in cella Breivik riceve lettere di tantissime persone che lo ringraziano per quello che ha fatto? Se è malato di mente lui, sono malati anche loro?».
Ancora qualcosa di umano
Il caso, comunque, è definitivamente chiuso: il tribunale ha dato ragione allo psichiatra, e condannato il killer a 21 anni di carcere, che possono sembrare una pena mite, ma che rappresentano il massimo di severità previsto dal sistema giudiziario norvegese. Breivik inoltre li farà tutti, fino all’ultimo giorno. Nel frattempo, viene spostato da un carcere all’altro. I secondini lo trovano insopportabile perché blatera senza sosta, chiede un trattamento migliore, protesta e si lamenta. E straparla di politica. Jens Breivik non si è arreso. Le righe fredde e impersonali che ha ricevuto da Anders, certo, lo hanno turbato. Suo figlio gli fa paura. Eppure gli ha mandato un’altra lettera. «Credo che in te ci sia ancora qualcosa di umano», gli ha scritto, «e che di quel qualcosa sia arrivato il momento di prendersi cura». Aspetta una risposta.