«Noi non siamo razzisti»: ditelo a Raghad, morta a 10 anni
I giornali sono pieni di cronache politiche, retroscena, analisi, interviste in cui i politici parlano, spesso straparlano. Eppure, nonostante le tante dichiarazioni in cui la classe dirigente mostra di esserci (a parole), colpisce l’assenza dello Stato. Non lo Stato inteso solo come governo, che è sempre provvisorio, ma come comunità, senso di appartenenza a regole condivise e a codici di condotta: tutte cose più durature di un esecutivo, più importanti di un ministro dell’Interno. Le proteste di Quinto di Treviso e Casale San Nicola, nella loro diversità, mostrano che abbiamo un problema. Quanto può essere solido uno Stato che non riesce a gestire una questione di ordine pubblico, lasciando che si trasformi, se non proprio in un’emergenza, nella percezione di un’emergenza? A Quinto di Treviso i residenti non sarebbero stati avvertiti dell’arrivo di 101 migranti che avrebbero dovuto abitare in un quartiere popolare; l’accoglienza, forse, sarebbe stata meno ostile se ci fosse stata una tempestiva comunicazione. Che invece c’è stata a Casale San Nicola, Roma, dove i residenti sapevano che sarebbero arrivate 19 persone, ma sono comunque scesi in strada per manifestare duramente, con tanto di feriti e arresti. Lo Stato però non sono solo i poliziotti, lo Stato sono (o dovrebbero essere) anche i governatori come Luca Zaia, presidente del Veneto. «Ciò che è successo a Quinto è il nostro 9 novembre. Come il muro di Berlino, che è rimasto lì per anni, ma poi una notte i ragazzi sono andati a buttarlo giù. Quinto è un punto di non ritorno. Abbiamo toccato il fondo. Ora basta, siamo pronti a una guerra gandhiana». Che cosa ci sia di gandhiano nell’incendiare i materassi su cui dovevano dormire i migranti ancora non è chiaro. Certo è molto grave che lo Stato, inteso come Luca Zaia (che pure è considerato il volto buono della Legapound), si faccia imprenditore della paura, commerciando rabbia in cambio di voti.