DROGA LIBERA
da un lato consola, dall’altro impone un ripasso di una materia soggetta – anche per il tragico impatto che ha sulla vita di tanti – a una lettura troppo emotiva, spesso pregiudiziale. «Legalizzare» è il contrario di «liberalizzare». Libera, la droga, è adesso, in pieno regime proibizionista, nel più ricco e fiorente mercato nero mai visto al mondo. Libera di uccidere e di ingrassare il narcotraffico. Di non osservare regole, di sfuggire a ogni controllo, di farsi da sola il suo prezzo. Il povero ragazzino morto impasticcato in un locale di Riccione avrebbe potuto comperare ovunque le fottute pilloline che stonano e a volte stroncano. Voi preferireste procurarvi un farmaco che agisce sul sistema nervoso dal vostro farmacista di fiducia o all’angolo di una strada, da un tizio la cui sola qualifica professionale è appartenere a un clan malavitoso? La cannabis gira a chili, il suo consumo è aumentato a dismisura, la sua qualità dipende solo dalla buona volontà dei trafficanti e degli spacciatori, nessun controllo sanitario o fiscale, nessuna etichetta che ti dica che cosa ti stai buttando in corpo. Nessuna garanzia, se non quella di essere carne da macello nelle mani del narcotraffico. Il grande problema degli antiproibizionisti è riuscire a spiegare al grosso dell’opinione pubblica che drogarsi, in regime di legalizzazione, non sarebbe «più facile». Sarebbe solo più sicuro. Meno sordidamente esposto alla vergogna e alla malattia, alla galera e alla solitudine. Tutto ciò che è legale è esposto alla luce del sole. È soggetto a regole e controlli. Chiama alla responsabilità il venditore così come il consumatore. Se compero cibo avariato, so su chi rivalermi. Se compero droga tagliata male, o contraffatta, o dal dosaggio micidiale, posso solo maledire me stesso. Naturalmente la cultura antiproibizionista, che è una cultura della legalità e della responsabilità, ha i suoi punti deboli. L’aumento pauroso delle dipendenze (da tutto! dalle droghe, dal gioco d’azzardo, dal denaro, dai debiti…) non suggerisce fiducia nelle capacità di autocontrollo e autolimitazione. Ma è un azzardo tipicamente «progressista», quello di credere nelle persone anche malgrado loro stesse. Come quando ci si fida di un figlio, e si pensa che per farlo crescere sia necessario, anzi sia obbligatorio dargli autonomia. Si sa che esiste un margine di rischio; ma lo si corre perché si considera importante dargli modo di badare a se stesso. Di diventare grande. L’antiproibizionismo prova a immaginare (forse a sognare) che le persone abbiano il diritto di diventare grandi, di scegliere che cosa consumare, come comportarsi, come vivere; possibilmente limitando il danno inferto agli altri e a se stessi. E i proibizionisti, per onestà, prima di paventare (magari ingigantendolo) il danno potenziale portato dalla legalizzazione, valutino il danno gigantesco – sanitario, sociale, criminale, fiscale – che il proibizionismo sta infliggendo giorno dopo giorno. Da molti, moltissimi anni.