Vanity Fair (Italy)

CRONACA NERA

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E, dice Blake, il vero motivo per cui tornarono insieme nel 2007, più o meno all’epoca in cui era primo in classifica, era proprio che lei si fidava e aveva bisogno di lui, in un momento in cui doveva affrontare il fatto di essere al centro dell’attenzione. Quel disco avrebbe venduto 20 milioni di copie in tutto il mondo. Ma altrettant­o rapido sarebbe stato il collasso della relazione. Troppa fama, troppi soldi, troppe pressioni. Gli chiedo della famigerata foto in cui li si vede barcollare per strada, Fielder con la faccia coperta di graffi, lei col trucco nero sbavato e le ballerine inzuppate di sangue. Era Amy che si bucava fra le dita dei piedi? O lui l’aveva picchiata? «No! Certo che no. Durante una lite avevo spaccato una bottiglia, mi ero tagliato le braccia, le avevo detto: “Tu mi stai uccidendo”. Si vedono i tagli sul mio viso, ero tutto graffiato. Anche lei si era tagliata da sola, il sangue era colato sul pavimento e sulle ballerine». lite, dice, era scoppiata dopo che lei aveva invitato nella loro stanza d’albergo a sniffare cocaina un’escort russa conosciuta in ascensore. Terrorizza­to all’idea che la situazione avesse ripercussi­oni negative sul suo processo in corso, facendolo sembrare ancora più sregolato di quanto la gente già lo considerav­a, Fielder aveva spaccato la bottiglia e si era ferito. «Quando ho visto la droga mi sono sentito gettato in pasto ai lupi. E anche un po’ abbandonat­o da Amy. Ma più di tanto non poteva fare. Non è che Amy mi abbia lasciato massacrare. Quelle cose le facevo anch’io. Eravamo i peggiori nemici di noi stessi, solo che hanno sempre dipinto me come quello che la trascinava». n altro momento non proprio gradevole del film è quello in cui si vede con quanta leggerezza Fielder trattava le loro dipendenze. «Canta Amy», le dice nella stanza di una clinica di disintossi­cazione dove avevano insistito per andare insieme. Lei recita qualche verso di senza particolar­e entusiasmo, per poi concludere, con un tono da bambina: «A me questo posto piace». Nel film, un terapeuta specializz­ato in dipendenze attribuisc­e a Fielder la paura di perdere la sua gallina dalle uova d’oro, se Amy si fosse disintossi­cata. «Ma le sembra eticamente corretto dire una cosa del genere?», protesta Blake. «Io quello nemmeno l’ho mai incontrato. Gli avrò parlato al telefono una volta». Vero è che Amy il fondo lo tocca proprio quando viene separata da Fielder, finito in carcere. Perfino Mitch Winehouse, nel libro, gli riconosce il fatto che, a quel punto, Blake voleva che Amy si disintossi­casse. Ma c’era tutta la pressione legata alla sua fama. Nel film c’è un momento in cui viene caricata in macchina addormenta­ta, accompagna­ta all’aeroporto e messa su un jet privato, il tutto perché possa soddisfare un impegno contrattua­le. «Vedendo mi sono reso conto che il motivo di tutta questa animosità nei miei confronti è che, quando ti ritrovi da solo con le tue responsabi­lità, quando ti dici: “Non è che qualche cazzata l’ho fatta veramente? Davvero ho fatto del male alla donna che avrei dovuto proteggere?”... Se lasci entrare quei pensieri, diventa difficile. Non sai dove vai a finire, mi spiego?».

Il 28 agosto 2007 Amy e Blake vengono fotografat­i a Londra con graffi e sangue sui vestiti. I pettegolez­zi si scatenano: lui l’ha

picchiata? Fielder ha sempre smentito. ice di essere riuscito a contenersi fino alla fine del film, fino alla scena in cui il corpo minuto di Amy viene portato via su una barella. «Lì ho pianto». Ha pianto perché «non doveva essere lì da sola a uccidersi di vodka, una diva come lei, ricca, con un bel fidanzato e una bella casa. Non doveva avere intorno solo guardie del corpo prezzolate». E ha pianto per un motivo più intimo. Prima di morire, Amy sembrava aver trovato la felicità con Reg Traviss, eppure – mi racconta Fielder – lei gli aveva telefonato in carcere: «Ci sei sempre e solo tu. Ho bisogno di venire a trovarti. Il dottore dice che fingere non mi fa bene alla salute». Forse voleva dirgli addio, suggerisco. Non poteva essere un tentativo di chiudere definitiva­mente? «Penso di sì», ammette. Mi spiega che, quando lui le aveva scritto per chiederle di tornare insieme, lei aveva risposto: «Blakey, voglio provare a far funzionare le cose con Reg. Voglio essere la donna di un uomo solo». Lui, ferito, l’aveva chiamata: «Io non voglio perderti». E lei: «Tu non mi perderai mai, Blakey». Volendo credere a Fielder, era come se Amy Winehouse stesse davvero cercando di fare la cosa giusta. La settimana prima che morisse, lui aveva diradato le telefonate per non usare tutti i minuti a sua disposizio­ne, e anche perché temeva di importunar­la. Quando poi l’aveva chiamata di nuovo, lei non aveva risposto. Era proprio quel sabato mattina. Il giorno della sua morte. «Sono innamorato di una persona che non c’è più. Penso a lei ogni giorno», dice. «Mi sento in un vicolo cieco e mi chiedo: come si fa a voltare pagina?”».

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