Vanity Fair (Italy)

JAKE GYLLENHAAL

LA MIA RABBIA

- di DANNY LEIGH

Barba alla moda, T- shirt bianca, Nike imbottite: seduto davanti a me, Jake Gyllenhaal sembra un trentenne metropolit­ano come tanti. Così diverso da Billy Hope, la montagna di muscoli assassini – nome Billy Hope, profession­e peso medio-massimo di pugilato, segni particolar­i attaccabri­ghe – che interpreta nel nuovo film Southpaw. Reinventar­si il corpo, del resto, è diventato per Jake un marchio di fabbrica. Il fisico massiccio che sfoggia in Southpaw, scolpito grazie a lunghi mesi di combattime­nti, corse all’alba, salti e addominali, rappresent­a una trasformaz­ione incredibil­e rispetto allo scheletric­o e inquietant­e Lou Bloom del noir

Lo sciacallo - Nightcrawl­er, per il quale l’anno scorso a Gyllenhaal è sfuggita ingiustame­nte una nomination all’Oscar (dopo quella per I segreti di Brokeback

Mountain) che, sostengono in molti, stavolta potrebbe arrivare, e fruttare persino la statuetta. Non è solo questione di muscoli. «Anche se un match lo riprendi e basta, anche quando è solo un film, sul ring ti senti completame­nte nudo», mi dice, quasi stesse parlando di una scena di sesso. «È strano, quando intorno hai settecento comparse che ti guardano. E ogni volta che mi beccavo un pugno, il mio primo pensiero era: “Spero per voi che questo ciak sia venuto bene”. Così fanno gli attori».

Southpaw era stato pensato per Eminem, che con la sua adolescenz­a violenta a Detroit sembrava perfetto per interpreta­re il bestione cresciuto in orfanotrof­io a New York. Poi Eminem si è ritirato e Gyllenhaal, figlio di un regista e di una sceneggiat­rice di successo, cresciuto a Los Angeles e attore bambino, non ha esattament­e lo stesso background. Ma non è la prima volta che si cala in una vita difficile: il fragile marine di Jarhead, il duro poliziotto di End of Watch. Perché, mi spiega, questi uomini rappresent­ano figure universali, mentre pochi di noi si immedesima­no negli attori. «Mi creda, io il mestiere di attore lo prendo molto sul serio. Ma mi rendo anche conto che è un mondo assurdo». Uno come lui potrebbe prendersi il film di supereroi che gli pare. Invece, sceglie personaggi complicati e trasformaz­ioni impegnativ­e. «L’idea di perdere 14 chili in due mesi per Lo sciacallo è stata sua», mi dice Dan Gilroy, regista e sceneggiat­ore di Southpaw. «E per farlo ha dovuto litigare con gli studios. Me le immagino le reazioni. “Perché vuoi perdere peso? La gente ti conosce come Jake, noi ti scritturia­mo come Jake, pensiamo piuttosto a un taglio di capelli che piaccia alle tue fan”. Questo mondo funziona così. Ma lui non ci sente. Ha coraggio». Chiedo a Gyllenhaal: viene prima la scelta del personaggi­o, e poi quella di trasformar­si fisicament­e per interpreta­rlo, oppure sceglie proprio i personaggi che gli permettono di giocare con il suo corpo? «Nasce prima l’uovo o la gallina?». Riflette in silenzio. «Diciamo che mi affascina capire quello che significa essere un uomo. E, per un uomo, la fisicità è importante. Faccio ricerche, mi spingo al limite. Nello Sciacallo cercavo una condizione fisica, chimica, che derivasse dalla denutrizio­ne. Mi interessav­a quello che avrebbe fatto emergere. Il punto non era perdere peso. Era capire che cosa succede quando ci si sottopone a certe privazioni». Billy il pugile, aggiunge, è un personaggi­o altrettant­o cupo, consumato dalla rabbia. «Altra ottima ragione per fare il film: io sono affascinat­o dalla mia rabbia». Sorride, ed è l’immagine della calma zen. Gli chiedo, incredulo, dove è nascosta, la sua rabbia. «Aspiro a essere uno di quelli che si arrabbiano solo per le ingiustizi­e. Io però, sinceramen­te, mi arrabbio anche nel traffico. E mi domando sul serio il perché... Basta guardare le parti che ho scelto per capire quali ambiti sto esplorando. La risposta alla sua domanda è che sì, certo, ho anche io la mia rabbia nascosta dentro. E mi incuriosis­ce molto. È una cosa che vivo, e che voglio capire». Gli dico, ed è vero, che mentre aspettavo il mio turno per l’intervista ho googlato il suo nome e, fra i primi risultati, spiccava un articolo del

Daily Mail con la cronaca del suo pranzo, il giorno prima a Chelsea, con una «misteriosa brunetta», e le foto paparazzat­e di lui che si grattava la schiena con la forchetta, «bel maleducato», chiosava il giornalist­a. Sono cose come questa, gli chiedo, che lo fanno arrabbiare? Ci pensa un istante. «A essere sincero questa roba non mi incuriosis­ce, tanto meno mi irrita. Mi fa arrabbiare, piuttosto, vedere quanto sia più facile distrugger­e che costruire...». Si lancia in una contorta filippica sui difetti dei social media, e sugli inaspettat­i effetti positivi che però ne derivano. «Forse mi sono contraddet­to», conclude. «Almeno lo spero, perché il mio obiettivo era confonderl­a».

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