Vanity Fair (Italy)

SI LV I A NUC I N I

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are un figlio non significa soltanto diventare madre, ma anche, in un’escalation frenetica che parte dalla gravidanza e arriva all’educazione del bambino, diventare oggetto di aspettativ­e, soggetto di luoghi comuni e destinatar­ia di giudizi, sempre espressi «a fin di bene, per carità». La mistica del «è la cosa più naturale del mondo» permea tutto, e più di tutto il parto e l’allattamen­to, raccontato quest’ultimo come un gesto istintivo e innato, scritto nel codice genetico delle femmine della specie. È davvero così? Per molte, non per tutte. Se il numero delle mamme americane che allattano non è mai stato così basso dagli anni Settanta (anni in cui anche in Italia il biberon veniva consegnato appena fuori dalle sale parto) vuol dire che l’istinto si è inceppato o che forse l’allattamen­to è piuttosto una scelta, a volte un percorso, in qualche caso anche impossibil­e? Ai corsi pre-parto viene insegnato che il latte materno è il migliore alimento che ci sia per il bambino, ma poi, quando il bambino nasce, sono poche le donne che sanno davvero come si fa e nessuno sembra avere tempo e pazienza di spiegare, nessuno sembra disposto ad accogliere la frustrazio­ne, il senso di sconfitta e di colpa che prende chi sempliceme­nte – per svariati motivi – non ci riesce. Non allattare al seno è una scelta, o una necessità, di cui ci si vergogna. «Ma come non vuoi il meglio per il tuo bambino? Non sei disposta alle mastiti, alle ragadi, a tirarti il latte?», domande dietro cui ce n’è una più grande: non gli vuoi bene? «Quando al corso pre-parto parlavano di allattamen­to io staccavo il cervello. Pensavo: ma sì, verrà. Non è forse così naturale? Ma poi quando mia figlia è nata prematura, io non ero pronta. Me l’hanno portata in camera di sera, dormiva, e io l’ho lasciata dormire. Cosa dovevo fare? Nessuno mi aveva detto né spiegato niente. La mattina si è svegliata e piangeva: io l’ho cullata e basta», racconta Roberta, 39 anni, mamma di Vittoria di due anni e mezzo. «Siccome non riuscivo a calmarla l’ho presa in braccio e sono andata alla nursery dove mi hanno urlato: ma cosa fa? La attacchi. Io ci ho provato ad avvicinarl­a al mio seno, ma lei stava lì con la bocca chiusa». È cominciato così quello che Roberta definisce «il frastuono», le opinioni di tutti, fai così, no fai così. E la sua tristezza. «Non riuscivo, piangevo. Un giorno sono andata dall’infermiera e le ho detto: ho paura che mia figlia muoia così. Non mi hanno mandato qualcuno che mi spiegasse come fare, mi hanno mandato una psicologa». Poi, una volta uscita dall’ospedale con una forte mastite, una notte Roberta si impunta: «Mi sono massaggiat­a il seno tutta la notte, fino a mattina. Ho raccolto il latte e gliel’ho dato con il biberon. Qualche ora dopo l’ho avvicinata al seno, che era diventato morbido: si è attaccata. Da quel momento ho cominciato ad ascoltare il mio corpo, ma soprattutt­o Vittoria. Mi ha insegnato lei come nutrirla, e allo stesso modo abbiamo deciso insieme quando smettere. Una sera l’allattavo e le ho detto: Vitto che gambe lunghe hai, sei grande. Quella notte si è svegliata e l’ho soltanto cullata. Non ha più cercato il mio seno. Sono contenta di questa strada che abbiamo percorso insieme, allattare è stato qualcosa che ha sfidato il mio carattere e di cui poi sono stata contenta, ma non è stato istintivo, non è stato facile. Bisognereb­be dirlo, se no poi ci si sente sole».

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