Vanity Fair (Italy)

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Ci vuole molto di più di un «like» indignato su Facebook per la morte di Cecil, il leone più popolare dello Zimbabwe, più di una firma in una petizione anticaccia o il linciaggio del pessimo dentista del Minnesota, reo di aver adescato il leone fuori dal Parco nazionale Hwange: per proteggere un patrimonio che non è solo dell’Africa, ma che appartiene al mondo, occorre prima di tutto un intervento internazio­nale per combattere la corruzione, leggi severe sulla caccia illegale e contro la crudeltà verso gli animali e un piano finanziato per convertire il turismo legato alla caccia in eco-safari. Il re leone dello Zimbabwe è solo uno dei casi, che mai sarebbe venuto alla ribalta se Walter Palmer si fosse attenuto a quello per cui aveva pagato: un trofeo da 55 mila dollari, in un’area adiacente al parco. Ma non è andata così: attrarre subdolamen­te con un’esca la criniera nera seguita dai ricercator­i inglesi per anni ha scatenato la condanna. E ora si rischia di creare danni maggiori. Premessa: sono una di quelle che ha umanizzato la felina di casa e trasformat­a in membro della famiglia, ma ho vissuto a lungo in Zimbabwe, ho incontrato decine di cacciatori durante i safari e, pur non condividen­do la loro attività, credo vada in parte considerat­o il loro realismo. La maggioranz­a degli abitanti del primo mondo pensa che la caccia non nobiliti l’uomo e che il fucile come estensione di virilità abbia fatto il suo tempo. Ma la realtà dice che ci sono uomini disposti a spendere cifre innominabi­li per quella adrenalina e per quei trofei. Esiste, non ci piace, ma è meglio farci i conti. Perché in Paesi come lo Zimbabwe (e gli altri sette dove la caccia al leone è legale), i maestosi felini non sono Simba, il

brent stapelkamp

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