UNIONE LIBERA
l’amore fallisce inesorabilmente se si pensa che tutto si riduca a un reciproco possesso. Perché nessuno appartiene a nessuno. Meno che mai a chi dice di amarci. E che, se ci ama veramente, dovrebbe essere capace di accettare tutto quello che di noi gli sfugge e che non potrà mai appartenergli. Accettando che i dubbi non scompaiano mai. Esattamente come l’incertezza che avvolge il desiderio. Chi potrebbe del resto essere così folle da pensare di sapere esattamente chi è e che cosa vuole? Chi potrebbe illudersi per più di pochi istanti, restando sincero con se stesso, di sapere tutta la verità dei propri sentimenti e del proprio amore? In una lettera al marito, il filosofo Heinrich Blücher, Hannah Arendt confessa che è solo dopo averlo incontrato che ha veramente capito cosa vuol dire essere libera. È grazie all’amore, scrive Arendt, che lei è riuscita ad aver accesso a quella parte intima di sé che ignorava ancora; è grazie all’amore che ha scoperto la gioia della dipendenza, senza aver tuttavia perso nemmeno una briciola d’autonomia. Ma in fondo è proprio questo uno dei compiti dell’amore: è lui che permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto a un’altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Anche se, per amare, bisogna poi essere pronti a rinunciare a qualcosa: l’altro non è mai perfetto; l’altro non è mai a nostra completa disposizione. Ecco perché, chiedendo all’altro di colmare ciò che non abbiamo, ognuno fa l’esperienza di essere in difetto e di non reclamare l’oggetto, come spiega Jacques Lacan, ma l’amore, cioè la possibilità di colmare un bisogno senza alienarsi totalmente nella dipendenza dell’altro. L’amore è per definizione dipendente: io dipendo dai suoi sguardi e dalle sue parole, dal suo modo di accogliermi e dalla sua capacità di accompagnarmi, dalla sua collera e dai suoi sbalzi di umore. Ma è anche la capacità di resistenza all’abbandono: quell’«io mi salverò anche se tu mi lasci»; quel filo di acciaio che ci tiene in vita anche quando siamo sommersi dalle tenebre. Il vuoto che ci portiamo tutti dentro – quel segno tangibile della nostra vulnerabilità e dei nostri limiti, quella traccia del bisogno che ci portiamo dentro e che ci spinge a incontrare gli altri, ad avere dei progetti, a fare di tutto per realizzarli – lo si può d’altronde solo attraversare. E il modo migliore per farlo, nonostante i suoi limiti, è proprio con l’altro. Twitter: @MichelaMarzano Hannah Arendt (Barbara Sukowa) e suo marito Heinrich Blücher (Axel
Milberg) nel film del 2012 dedicato alla
grande filosofa.