Vanity Fair (Italy)

I FRATELLI

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Paul Marciano con il fratello Maurice, cofondator­e di Guess

che oggi si occupa di arte ed è presidente onorario del marchio. abbastanza conosciuti, ma nei cinque anni successivi siamo cresciuti del 200%. In un anno siamo passati dai 20 milioni di dollari di fatturato a 80 e poi a 240. La nostra produzione al tempo era tutta intorno a Los Angeles: siamo stati made in the Usa per almeno 20 anni e poi abbiamo dovuto cedere e siamo andati in Asia o in Messico». Con il problema della siccità sarebbe difficile anche per i processi legati allo stone washing? «Di sicuro: la più grande minaccia per la California è la carenza d’acqua. La città ha richiesto a tutti di tagliare del 36% i consumi, a Beverly Hills addirittur­a si parla del 52%. Per un paio di jeans ci vogliono duecento litri d’acqua e ora abbiamo un team specifico che sta studiando come tagliare il consumo del 60%. Siamo anche alla ricerca di tessuti che avranno l’aspetto stone washed già prima del lavaggio». La cultura del jeans resiste? «Certo, il denim è simbolo di libertà, è per tutti, a ogni età. Non conosco nessuno che non ne abbia svariati nell’armadio. Però devo dire che sono sorpreso di come siamo riusciti a sopravvive­re, molti si sono persi per strada. Quello del jeans non è un settore facile: anche perché i jeans, banalmente, durano per sempre. Abbiamo avuto fortuna, abbiamo creato un marchio di lifestyle, così quando il ciclo degli accessori è arrivato noi eravamo già pronti con borse, scarpe e orologi. L’Italia era il mercato più grande e più competitiv­o del mondo, e siamo esplosi qui. E ora mi pare che con Renzi vi stiate riprendend­o. Io lo apprezzo, l’ho incontrato a Firenze, e mi pare abbia buone idee, almeno ci sta provando». Proprio a Firenze di recente c’è stata una sentenza controvers­a di assoluzion­e in un caso di stupro di gruppo. Una vicenda che ricorda quella che ha ispirato il Denim Day dello scorso maggio, che lei sostiene con la Guess Foundation per promuovere la lotta alla violenza contro le donne. «L’iniziativa è nata proprio dopo una sentenza del 1998 della Corte di Cassazione italiana: se indossi jeans stretti non può essere violenza, perché sfilarli senza la tua volontà è impossibil­e. Un’assurdità, come fanno dei giudici a pensare una cosa del genere? Senza contare la limitazion­e dei diritti personali. Ho una figlia di 20 anni e una di 2, oltre a due maschi, ma vorrei attraverso la mia fondazione sensibiliz­zare il mondo sul diritto delle donne a scegliere come vestirsi senza dover subire violenze. L’anno prossimo riporterem­o il Denim Day in Italia». Come è riuscito a gestire tutto quello che è arrivato, e tutte queste belle donne? «Era lavoro, ma anche una passione. Le dirò qualcosa che pochi sanno: ho scelto Claudia ed Eva senza incontrarl­e. Mai fatto il casting, le ho sempre viste soltanto sulla carta. Non ho la pazienza, e il casting è una situazione che mi intimidisc­e. Ancora una volta vado a memoria, quando vedo una foto so all’istante cosa va bene e cosa no: elimino quello che non va e lavoro su quello che funziona. Quando Laetitia Casta, che secondo me è stata la più sexy delle “Guess Girls” – La più difficile? Senza dubbio Naomi Campbell –, è arrivata nei nostri uffici di Los Angeles aveva 15 anni. Ho visto una ragazzina che cercava il bagno, le ho chiesto dove fosse la sua mamma e lei ha risposto che era lì per lavorare. Era una modella, con molto seno, non troppo alta... È successo molto tempo prima che Yves Saint Laurent la scegliesse come musa. Lei sognava di diventare una grande attrice, comunque è stata una grande modella. Mentre Charlize Theron è chiarament­e un’attrice migliore di quanto sia mai stata come modella. Un’altra mia bella scoperta».

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