PER PORTARE I TACCHI»
«C’È UN’ALTRA DONNA, PIÙ GIOVANE DI LEI, UNA QUINDICINA D’ANNI IN MENO, TROPPO ALTA
un’arte: guardare senza farsi vedere. Ancor più: guardare, senza farsi vedere, chi ti sta guardando cercando di non farsi vedere. Un incontro di fioretto al silenziatore, su pedane distanti, nessun altro si accorge che c’è una sfida, un punteggio. Così lei attraversa la sala del ristorante, all’apparenza inconsapevole, gli occhi puntati davanti a sé, il passo svelto. Conta. Uno: quello calvo seduto di fronte a una ragazza che non è sua figlia, avvantaggiato dal fatto che lei è di spalle. Due: quell’altro, momentaneamente solo, che alza gli occhi dal cellulare su cui stava scrivendo. Non troppi, né pochi: va, ancora, bene così. Apre la porta del bagno.
Davanti ai lavandini c’è un’altra donna, più giovane di lei, una quindicina d’anni in meno, i capelli scuri e corti, un tubino nero, troppo alta per portare i tacchi e per un uomo che non sia almeno un metro e novanta. Sta appoggiata al muro, l’acqua scorre, lei parla al cellulare: venire in bagno dev’essere stata una scusa per poterlo fare. Dice: «Tesoro, adesso devo lasciarti, devo tornare a tavola, è una cena importante, ci sono tutti». Istintivamente controlla la reazione dell’altra, che resta impassibile, si guarda allo specchio, apre la trousse del trucco e, come per solidarietà, fa scorrere acqua anche dal suo rubinetto. In commissariato ha sentito ben altre bugie e imparato a mostrarsi rassicurante con chi mente, finché si tradisce da sé. Ha scoperto che è una liberazione per l’interrogato più ancora che per lei. Alla fine, anzi, si sente svuotata e inutile: è il gioco a tenerla viva. «Ciao, amore mio, magari quando esco ti faccio due squilli, due soltanto, così rispondi solo se sei ancora sveglio. Bacio». Spegne il cellulare, chiude il rubinetto, si sforza di non guardare l’altra donna mentre le passa alle spalle. Quella non stacca gli occhi dallo specchio mentre le dice: «L’ultimo numero andrebbe sempre cancellato». Non si volta, non risponde. Irritata, cammina svelta verso il tavolo dove lui l’aspetta. Felpata, sulle scarpe basse, gli ricompare di fronte a sorpresa. Lui pigia un tasto e mette il telefonino di lato, a pancia in giù. Non la posizione ideale per riposare, pensa lei.
Sul tavolo ci sono anche la bottiglia di vino rosso ormai vuota, i piattini con quel poco che resta dei dolci, il tovagliolo di lei abbandonato di lato. Dà l’idea di un letto sfatto, ma per qualche ragione dopo una notte insonne, non alla fine di un amplesso. L’uomo che l’attende ha un aspetto accuratamente trasandato: la barba di tre giorni, la maglietta con uno sdrucito collo a V sotto la giacca destrutturata, la divisa di un attore che ancora crede nel cinema senza compromessi, o di uno scrittore nel mezzo di una trilogia dove si mischiano realtà e finzione. Lei scivola sulla sedia con i movimenti della sciatrice che è stata da ragazza. Esala: «Sta meglio, la febbre è passata. Stanotte dorme dal padre». «Bene». «Nelle emergenze puoi contarci.. dà il meglio di sé... come tutti i narcisi... pensa che il suo impegno valga la pena solo se c’è qualcosa di importante: non accenderebbe un interruttore ma spegnerebbe un incendio». «Questa l’hai letta.. dove?». «Perché? Non potrebbe essere una mia considerazione?». «Perché... l’hai letta...?». «No. Non l’ho letta». Lui alza una mano, il palmo aperto in segno di resa. Si arrende pure lei: «L’ho sentita. Me l’ha detta... la mia analista». «Eccola lì!». Due su due. Prima ha nominato il marito, ora l’analista: due persone di cui lui non ama sentir parlare. Due rivali, in modi diversi. Due influenze. Due fastidi. Sta già giocherellando con la prima cosa che ha trovato, la forchettina del dolce, come fa quando non vorrebbe più essere lì, o vorrebbe essere qualcun altro. Attore o scrittore: qualunque cosa sia, lo fa per entrare in un’altra vita. Prendersi una vacanza: ci vediamo appena torno da me.