IL MIO CUORE nelle mani di quel ragazzino
la miseria e me ne libero trasferendo una monetina dalla mia mano a quella dell’altro senza particolare trasporto, nell’illusione di avere così rimosso ancora una volta il problema. Il racket delle elemosine lo sa e si inventa sempre nuovi sistemi per titillare la mia sensibilità pelosa. Accanto ai monchi e ai derelitti più o meno autentici, mi fa apparire la mamma col bebè in fasce, l’anziano solo con un cane, la donna cenciosa accampata accanto al bancomat. troppa paura. La prima volta che lo vidi ero un bambino agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. Avevo perso mia madre da poco e papà aveva cercato di mettere una distanza intercontinentale tra noi e la sofferenza, iscrivendo entrambi a un viaggio nel cuore dell’India. Ma la sofferenza è un bagaglio a mano che ti porti dappertutto e lì comunque ne trovai a sufficienza per riempire la stiva di un transatlantico. Postulanti, reietti, piccoli abbandonati e vecchi rugosi che alla domanda «quanti anni hai?» rispondevano «trenta». Quando la comitiva riguadagnava l’albergo e si abbuffava ai tavoli del self service come se non mangiasse da una vita, io non riuscivo a toccare cibo. Il mio era un comportamento ipersensibile ma alla fine molto egoista, non credere. Le razioni che rifiutavo di ingurgitare non sarebbero certo finite nella pancia di quei ragazzini e di quei vecchi di trent’anni. Se avessi davvero voluto aiutarli, avrei dovuto riempire un borsone di cibo e portarlo ai miserabili assiepati davanti all’ingresso. Semplicemente avevo lo stomaco chiuso per il troppo dolore e mi consumavo in uno strazio sterile. In fondo non sono mai uscito da quella sensazione di disagio che la povertà esibita mi innesca nel cuore, paralizzandolo. Spero che la tua lettera compia il miracolo di farmi evolvere un po’. L’amore non è solo preoccuparsi per gli altri. L’amore è occuparsene.