Vanity Fair (Italy)

FUGA DALL’INFERNO 2.0

A Lesbo e Kos, le isole greche più vicine alla Turchia, sbarcano i nuovi migranti, la classe media colta siriana, che parla le lingue, e per scappare dalla morte usa il gps. Già 140 mila nel 2015, ed è solo l’inizio

- di RICCARDO ROMANI

Salvarsi la vita può dipendere da una buona connession­e Internet. Il ragazzo mi mostra orgoglioso sul suo smartphone di ultima generazion­e l’applicazio­ne su cui una serie di mappe illustrano il tracciato percorso nell’ultimo mese. Ha occhi troppo duri per la sua età e un piano in testa che vuol portare a termine costi quel che costi: «Vado in Svezia, passo dalla Germania, guarda qua». La sopravvive­nza viaggia su Google Maps. Nour ha 17 anni e arriva da Ghouta, quartiere periferico di Damasco, il poligono di tiro preferito dai macellai di Assad. A Lesbo è sbarcato di notte a bordo di un canotto con qualche amico fatto per strada e una sorella più piccola di cui si declama con fierezza tutore. Ci sarebbero parenti pronti ad accoglierl­i dalle parti di Göteborg, dice che ogni tanto si scambiano messaggi su WhatsApp. Mytilini, capoluogo dell’isola regina dell’Egeo, è solo una casella di questo pericoloso gioco. E a giudicare dall’umore di Nour, a dispetto di un giaciglio ricavato tra le pietre, il peggio è alle spalle. Lesbo tiene a battesimo nelle sue acque di smeraldo un nuovo genere d’immigrazio­ne, la versione 2.0 della fuga dall’inferno. Dei 1.744 profughi arrivati fin qui nella settimana tra il 7 e il 15 agosto, l’80 per cento proviene dalla Siria. Non ci sono diseredati, non c’è la cupa atmosfera che accompagna i barconi che si sfasciano davanti a Lampedusa. È l’esodo di massa della classe media di Damasco, Aleppo, Homs. Parlano le lingue, sono professori, studenti, profession­isti, mercanti i cui affari sono stati polverizza­ti dalla follia del regime, dalla guerra civile e dall’avanzata dello Stato Islamico. Hanno pacchetti di banconote avvolti nella plastica per i surgelati e appiccicat­i al corpo come cinture esplosive, sono pronti a morire se qualcuno prova a strappargl­ieli. Sanno esattament­e come funziona il gps. Conoscono il luogo in cui si trovano e quello dove hanno intenzione di andare. L’Europa? Non sono interessat­i al concetto. Loro cercano casa. Che sia ora la Grecia la destinatar­ia del più massiccio afflusso di migranti del Continente è un fatto di amara ironia. Un Paese ancora attaccato alla macchina dell’ossigeno che deve portare soccorso a eserciti di profughi disposti a tutto. Il porto di Mytilini si trasforma così ogni giorno in una porta girevole per migliaia di destini. Un vecchio container con una sola finestra distribuis­ce illusioni e formulari da compilare con lo scopo di

ottenere un pass per Atene, la chance di arrivare a un consolato. Uno addosso all’altro, con temperatur­e da rosticceri­a, per guadagnare quella finestrell­a e intraveder­e uno spicchio di paradiso. Tra Mytilini e Kos, solo nel 2015, sono arrivati 140 mila esseri umani. Il viaggio da Bodrum, sulla vicina costa turca, al confronto dell’insidiosa traversata del Canale di Sicilia è poco più di una gita in alto mare. Ci provano in tanti, donne e bambini compresi. E questa è l’altra grande differenza con gli altri flussi migratori, verso l’Italia e la Spagna, dove per l’80 per cento si tratta di maschi giovani. Qui emigrano le famiglie in blocco. Interi quartieri svuotati prima di finire sbriciolat­i da qualche bomba, magari chimica. Aisha, ragazzina con una striscia di abbronzatu­ra sghemba disegnata dal chador, è quasi in lacrime mentre mi chiede di raccontare in che condizioni è costretta a vivere. Ma se le domando di ciò che ha lasciato, si rianima: «No, no, non potrei più tornare, il mio quartiere a Damasco non esiste più». Nikolas Ververis, commissari­o di polizia, mi spiega che gli sbarchi a gennaio sono stati 742, ad aprile erano già saliti a 5.324, nelle prime due settimane d’agosto hanno abbondante­mente superato le 20 mila unità. Soprattutt­o siriani, ma anche parecchi afghani e qualche iracheno. «Arrivano con semplici gommoni a remi. Pagano dagli 800 ai 1.500 dollari per il passaggio. In due ore, l’altra notte, ne abbiamo recuperati ottanta». Ottanta come i morti di un solo giorno di guerra, la settimana scorsa, a Ghouta, il quartiere di Nour. La scelta di andarsene è quindi solo il frutto di un banale calcolo delle probabilit­à. Ververis non lo può dire ufficialme­nte, ma non è contento di come i turchi stanno gestendo la situazione. Al confine fra Turchia e Siria sorge un campo profughi da due milioni di persone. Da qualche mese le autorità locali hanno chiuso un occhio, forse entrambi. Via libera ai contrabban­dieri di esseri umani. Che ci pensi l’Europa. Ma l’Europa, vista qui da Mytilini, è parecchio lontana. A Moria, una decina di chilometri dal porto, i greci hanno allestito il più grande campo d’accoglienz­a dell’Egeo. Ci sono tende, qualche baracca, ma parecchi profughi si spostano in taxi. I più giovani si informano su dove trovare un cambio valute. E siccome anche qui le autorità stanno diventando di manica larga, tra quelli con passaporto regolare – la maggioranz­a – in molti riescono a procurarsi il pezzo di carta per imbarcarsi nella grande nave della sera, quella che porta ad Atene. Nell’attesa ci si rinfresca con un bagno, magari indossando ancora i giubbotti salvagente acquistati alla partenza. Intanto Mytilini si affloscia, le spiagge sono semidesert­e, una camera a quattro stelle va via con poche decine di euro. Marina, manager del Theofilos Hotel, non sa più a che santo votarsi: «La crisi, il referendum di luglio, adesso l’emergenza migranti e a settembre altre elezioni. Non ce la possiamo fare. Non è giusto». Sorridono solo i gestori telefonici, con i negozi sul porto pieni di stranieri – non esattament­e villeggian­ti – che comprano schede e minuti. «Navigare», chiedono nel loro inglese scolastico. Sull’acqua e no. E i migranti continuera­nno ad arrivare, nessuno potrà fermarli, non i decreti, non i vuoti proclami dei cacciatori di voti. La Siria e l’Iraq sono polveriere che abbiamo lasciato esplodere. La retorica su «quelli che arrivano perché vogliono il nostro benessere» è affondata assieme ai barconi. Questa è tutta un’altra storia. Una pessima storia.

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