FUGA DALL’INFERNO 2.0
A Lesbo e Kos, le isole greche più vicine alla Turchia, sbarcano i nuovi migranti, la classe media colta siriana, che parla le lingue, e per scappare dalla morte usa il gps. Già 140 mila nel 2015, ed è solo l’inizio
Salvarsi la vita può dipendere da una buona connessione Internet. Il ragazzo mi mostra orgoglioso sul suo smartphone di ultima generazione l’applicazione su cui una serie di mappe illustrano il tracciato percorso nell’ultimo mese. Ha occhi troppo duri per la sua età e un piano in testa che vuol portare a termine costi quel che costi: «Vado in Svezia, passo dalla Germania, guarda qua». La sopravvivenza viaggia su Google Maps. Nour ha 17 anni e arriva da Ghouta, quartiere periferico di Damasco, il poligono di tiro preferito dai macellai di Assad. A Lesbo è sbarcato di notte a bordo di un canotto con qualche amico fatto per strada e una sorella più piccola di cui si declama con fierezza tutore. Ci sarebbero parenti pronti ad accoglierli dalle parti di Göteborg, dice che ogni tanto si scambiano messaggi su WhatsApp. Mytilini, capoluogo dell’isola regina dell’Egeo, è solo una casella di questo pericoloso gioco. E a giudicare dall’umore di Nour, a dispetto di un giaciglio ricavato tra le pietre, il peggio è alle spalle. Lesbo tiene a battesimo nelle sue acque di smeraldo un nuovo genere d’immigrazione, la versione 2.0 della fuga dall’inferno. Dei 1.744 profughi arrivati fin qui nella settimana tra il 7 e il 15 agosto, l’80 per cento proviene dalla Siria. Non ci sono diseredati, non c’è la cupa atmosfera che accompagna i barconi che si sfasciano davanti a Lampedusa. È l’esodo di massa della classe media di Damasco, Aleppo, Homs. Parlano le lingue, sono professori, studenti, professionisti, mercanti i cui affari sono stati polverizzati dalla follia del regime, dalla guerra civile e dall’avanzata dello Stato Islamico. Hanno pacchetti di banconote avvolti nella plastica per i surgelati e appiccicati al corpo come cinture esplosive, sono pronti a morire se qualcuno prova a strapparglieli. Sanno esattamente come funziona il gps. Conoscono il luogo in cui si trovano e quello dove hanno intenzione di andare. L’Europa? Non sono interessati al concetto. Loro cercano casa. Che sia ora la Grecia la destinataria del più massiccio afflusso di migranti del Continente è un fatto di amara ironia. Un Paese ancora attaccato alla macchina dell’ossigeno che deve portare soccorso a eserciti di profughi disposti a tutto. Il porto di Mytilini si trasforma così ogni giorno in una porta girevole per migliaia di destini. Un vecchio container con una sola finestra distribuisce illusioni e formulari da compilare con lo scopo di
ottenere un pass per Atene, la chance di arrivare a un consolato. Uno addosso all’altro, con temperature da rosticceria, per guadagnare quella finestrella e intravedere uno spicchio di paradiso. Tra Mytilini e Kos, solo nel 2015, sono arrivati 140 mila esseri umani. Il viaggio da Bodrum, sulla vicina costa turca, al confronto dell’insidiosa traversata del Canale di Sicilia è poco più di una gita in alto mare. Ci provano in tanti, donne e bambini compresi. E questa è l’altra grande differenza con gli altri flussi migratori, verso l’Italia e la Spagna, dove per l’80 per cento si tratta di maschi giovani. Qui emigrano le famiglie in blocco. Interi quartieri svuotati prima di finire sbriciolati da qualche bomba, magari chimica. Aisha, ragazzina con una striscia di abbronzatura sghemba disegnata dal chador, è quasi in lacrime mentre mi chiede di raccontare in che condizioni è costretta a vivere. Ma se le domando di ciò che ha lasciato, si rianima: «No, no, non potrei più tornare, il mio quartiere a Damasco non esiste più». Nikolas Ververis, commissario di polizia, mi spiega che gli sbarchi a gennaio sono stati 742, ad aprile erano già saliti a 5.324, nelle prime due settimane d’agosto hanno abbondantemente superato le 20 mila unità. Soprattutto siriani, ma anche parecchi afghani e qualche iracheno. «Arrivano con semplici gommoni a remi. Pagano dagli 800 ai 1.500 dollari per il passaggio. In due ore, l’altra notte, ne abbiamo recuperati ottanta». Ottanta come i morti di un solo giorno di guerra, la settimana scorsa, a Ghouta, il quartiere di Nour. La scelta di andarsene è quindi solo il frutto di un banale calcolo delle probabilità. Ververis non lo può dire ufficialmente, ma non è contento di come i turchi stanno gestendo la situazione. Al confine fra Turchia e Siria sorge un campo profughi da due milioni di persone. Da qualche mese le autorità locali hanno chiuso un occhio, forse entrambi. Via libera ai contrabbandieri di esseri umani. Che ci pensi l’Europa. Ma l’Europa, vista qui da Mytilini, è parecchio lontana. A Moria, una decina di chilometri dal porto, i greci hanno allestito il più grande campo d’accoglienza dell’Egeo. Ci sono tende, qualche baracca, ma parecchi profughi si spostano in taxi. I più giovani si informano su dove trovare un cambio valute. E siccome anche qui le autorità stanno diventando di manica larga, tra quelli con passaporto regolare – la maggioranza – in molti riescono a procurarsi il pezzo di carta per imbarcarsi nella grande nave della sera, quella che porta ad Atene. Nell’attesa ci si rinfresca con un bagno, magari indossando ancora i giubbotti salvagente acquistati alla partenza. Intanto Mytilini si affloscia, le spiagge sono semideserte, una camera a quattro stelle va via con poche decine di euro. Marina, manager del Theofilos Hotel, non sa più a che santo votarsi: «La crisi, il referendum di luglio, adesso l’emergenza migranti e a settembre altre elezioni. Non ce la possiamo fare. Non è giusto». Sorridono solo i gestori telefonici, con i negozi sul porto pieni di stranieri – non esattamente villeggianti – che comprano schede e minuti. «Navigare», chiedono nel loro inglese scolastico. Sull’acqua e no. E i migranti continueranno ad arrivare, nessuno potrà fermarli, non i decreti, non i vuoti proclami dei cacciatori di voti. La Siria e l’Iraq sono polveriere che abbiamo lasciato esplodere. La retorica su «quelli che arrivano perché vogliono il nostro benessere» è affondata assieme ai barconi. Questa è tutta un’altra storia. Una pessima storia.