BACIAMI, BACILLO
Il batterio non si combatte, si coltiva. La nuova frontiera della medicina studia il MICROBIOMA. Un «superorgano» che salva la vita
Se l’idea di un summit in cui scienziati da tutto il mondo si riuniscano a parlare di «cacca» vi sembra una barzelletta per seienni, siete fuori strada. Un raduno di questo genere esiste: si chiama Probiota e si tiene ad Amsterdam (2- 4 febbraio), i protagonisti sono batteri «buoni» e provenienti proprio dall’ambiente intestinale umano come lactobacillus e byphidobacterium (ma anche nuove star della ricerca come il faecalibacterium prausnitzii, la cui scarsità è correlata a obesità e morbo di Crohn), e al centro dell’agenda ci sono tutti i loro impieghi in medicina – dove la considerazione del cosiddetto «microbioma umano», cioè l’insieme dei microrganismi che vivono dentro e su di noi, è una delle frontiere più nuove e promettenti – e nella cura del corpo. E se per le generazioni più grandicelle cresciute a pane e antibiotici il concetto di «batterio buono» sembra eretico, «il microbioma è invece ormai considerato dalla comunità scientifica un “superorgano” virtuale», spiega il microbiologo Marco Pane, ricercatore dell’azienda novarese Probiotical e unico relatore italiano alla conferenza. «Virtuale perché è l’unico che cambia sempre; ed è perlopiù intestinale ma anche vaginale, orofaringeo, sul cuoio capelluto. E non se ne può fare a meno: pensi che nel latte materno esistono fibre complesse che il bambino non assimila e la mamma nemmeno, alimentano solo i microbi del bambino». Che cosa fa questo «superorgano» fatto di microbi? «Presiede a molte funzioni, alcune assodate da sempre come la regolarità intestinale o la resistenza ad attacchi patogeni. Ma è allo studio, con effetti sorprendenti, il suo ruolo nella cura di varie malattie croniche, per esempio intestinali». Per esempio? «Non è un caso che con il forte diminuire delle malattie infettive verificatosi nel secondo dopoguerra siano però aumentate allergie e risposte autoimmuni, dall’artrite reumatoide al diabete di tipo 1. È come se migliorando le condizioni igieniche, curandoci con antibiotici e fuggendo dalle campagne, avessimo perso il contatto con la nostra ricchezza batterica, confondendo il sistema immunitario». Anche la depressione, per la mentalità comune, è il prodotto di una vita troppo «comoda». È un cliché? «Un celebre studio recente su due colonie di topi, gli uni dal comportamento curioso e attivo e gli altri dall’indole “depressa”, ha verificato che scambiando i loro batteri intestinali si scambiavano anche i caratteri. Topi nati in ambienti sterili non hanno un intestino sviluppato come gli altri, e riportano disturbi affettivi e dell’umore. Il “gut-brain axis”, cioè il collegamento “pancia- cervello”, è un settore di ricerca in grande espansione». Quindi come ci si deve prendere cura dei nostri microbi? «Se vivessimo in una società dove le donne possono allattare a lungo e dove il parto è sempre naturale e quindi il bambino assorbe subito i batteri della vagina materna, non servirebbe assumere probiotici. Invece spesso ci servono, magari in previsione di un viaggio esotico o di un periodo di stress. La prevenzione, poi, è fatta di cibi fermentanti come frutta e verdura, mentre quelli confezionati vanno evitati perché ogni conservante è un disinfettante e quindi uccide anche i nostri batteri; bere poco alcol, non fumare perché infiamma e altera tutto, accettare che defecare dev’essere un ritmo quotidiano e dedicarci attenzioni. E ricordare che se al bimbo cade il ciuccio per terra non è un dramma se poi lo rimette in bocca. Anzi».