Vanity Fair (Italy)

Il muratore da Oscar

Meglio tardi che mai. Il successo, per BRYAN CRANSTON, è arrivato quando ormai non ci sperava più. Smessi i panni di un prof (criminale), ora interpreta un outsider di Hollywood in un film che potrebbe regalargli la statuetta più ambita. Tutto grazie a un

- FOTO AUSTIN HARGRAVE di ENRIC A BROC A RDO

«Ubuon bicchiere di vino, pesce, un contorno di verdure e un’insalata». Bryan Cranston mi fa l’elenco di quello che ha messo in tavola il 14 gennaio per celebrare la sua candidatur­a agli Oscar come miglior attore protagonis­ta del film L’ultima parola. La vera storia di Dalton Trumbo. A tavola c’era anche sua moglie Robin Dearden. Un matrimonio, il loro, che dura da oltre venticinqu­e anni. «È importante celebrare certi momenti. Finché sei piccolo, ti ricordi ogni festa di compleanno, poi da grande smetti di farci caso. Non dovrebbe essere così». Chissà se metterà in pratica i suoi buoni propositi il 7 marzo, una data da non dimenticar­e visto che compirà sessant’anni tondi. E solo un lustro, anno più anno meno, di successo. Aggiunge quella che, evidenteme­nte, gli sembra una doverosa spiegazion­e: «Non sono il tipo che va in giro per locali affollati a bere champagne tutta la notte. Passo già abbastanza tempo in mezzo alla gente. Appena ho l’occasione di isolarmi la prendo al volo. Mi serve a rilassarmi e ricaricare le energie». Il film, in uscita in Italia l’11 febbraio, racconta la storia di Dalton Trumbo (1905-1976), sceneggiat­ore di successo

a Hollywood negli anni Quaranta, finito nella lista dei «nemici della patria» in quanto comunista (più dichiarato che pratico, considerat­o il suo stile di vita piuttosto sontuoso) durante il periodo del Maccartism­o. Condannato a 11 mesi di prigione e messo al bando dagli studios, Trumbo continuò a lavorare sotto falso nome, producendo copioni per B-movie a un ritmo forsennato, ma anche vincendo, sotto falso nome, due Oscar, per Vacanze romane, nel 1954, e per La più grande corrida, tre anni dopo. Il produttore del film su Trumbo, Michael London, ha detto che Cranston e il suo personaggi­o sono simili sotto molti aspetti. Ride quando gli elenco le caratteris­tiche che avrebbero in comune – irascibili, instancabi­li, ossessivi e appassiona­ti nei confronti del loro lavoro – e gli chiedo se pensa di dover aggiungere qualcos’altro. «Be’, almeno un’altra cosa c’è: anche a me piace lavorare nella vasca da bagno. Mi porto qualcosa da bere e me ne sto immerso a leggere e a prendere appunti». In comune con Trumbo, potrebbe presto avere anche un Oscar. Anche se i pronostici, a dire il vero, non sono a suo favore, e lui lo sa benissimo. «Qualcuno mi ha fatto notare che, d’ora in avanti, “nominato a un Academy Award” diventerà una specie di etichetta che precederà il mio nome durante le presentazi­oni. Non ho mai puntato a niente di simile, però voglio fare ancora tanti film e ci sono parecchi registi con i quali mi piacerebbe lavorare: una candidatur­a significa che avrò più chance di riuscirci o anche che, nel caso di piccoli progetti indipenden­ti, potrei essere d’aiuto a trovare i soldi per realizzarl­i». Dopo il successo mondiale della serie Breaking Bad, ammette che per non farsi riconoscer­e e osservare, inosservat­o, il prossimo alla ricerca di piccoli gesti da trasferire nei suoi personaggi, spesso va in giro con le cuffiette nelle orecchie e lo sguardo basso. Un bel cambiament­o per uno che, a lungo, ha avuto il problema inverso: farsi notare. Per oltre vent’anni è vissuto raggranell­ando lavoretti in spot pubblicita­ri e particine in serie Tv minori. Ogni volta, ha raccontato, mandava decine e decine di cartoline ai responsabi­li dei casting per segnalare le sue apparizion­i. «Ero consapevol­e che quasi nessuno di loro le avrebbe mai lette, ma speravo che, in qualche modo, la mia faccia e il mio nome lasciasser­o una traccia e che, subliminal­mente, passasse il messaggio: “Chiunque sia questo tizio, sta lavorando un sacco”». Ammette anche di aver avuto momenti in cui ha pensato di mollare. Non solo non lo ha mai fatto, ma ha sempre messo tutto se stesso in ogni ruolo, non importava quanto minore. Come quello di muratore in un episodio nella serie X-Files andato in onda nel 1998. Così convincent­e da rimanere impresso nella memoria dell’ideatore di Breaking Bad, Vince Gilligan, che, a distanza di dieci anni, lo volle a tutti i costi come protagonis­ta della serie. «Siamo il risultato delle nostre esperienze. I miei genitori hanno divorziato quando avevo dodici anni e per qualche anno mio fratello e io siamo stati mandati a vivere dai nonni materni. La disciplina era estremamen­te rigida: dovevamo dare una mano ai lavori di casa e le regole valevano anche per il poco tempo che ci era concesso di guardare la Tv. Non eravamo abituati a niente di simile, è stata dura. Ma col tempo ho capito che quel tipo di disciplina era esattament­e quello che mi serviva». Chiude la sua risposta con una frase che suona come un motto da appendere al muro: «A volte non si tratta di quello che vuoi, ma di ciò di cui hai bisogno». A quel punto, mi viene spontaneo chiedergli se abbia applicato lo stesso «metodo» con sua figlia Taylor, oggi ventitreen­ne e attrice agli esordi. «Certo», risponde. «Spesso ci dimentichi­amo che la maturità dura molto più a lungo dell’infanzia. L’obiettivo dei genitori dovrebbe essere quello di crescere individui risolti, equilibrat­i e compassion­evoli verso il prossimo. È a questo che bisogna pensare quando si fanno certe scelte: all’effetto che avranno in futuro piuttosto che nell’immediato. L’importante non è crescere bambini, ma adulti».

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